Del granchio blu (Callinectes sapidus) si è iniziato a parlare in Italia nel 2019, quando questa specie era considerata aliena, o meglio alloctona. La specie, infatti, non è originaria delle nostre acque, ma dell’Oceano Atlantico Occidentale, seppur fin dagli anni ’40 segnalata nel Mediterraneo, dove sarebbe giunta probabilmente attraverso le acque di zavorra delle imbarcazioni. Ma è divenuta oggetto di grande clamore mediatico lo scorso giugno, in seguito all’esplosione demografica nell’alto Adriatico, con effetti negativi sull’ecosistema marino e sulle attività di pesca (in particolare quella artigianale) e sulla molluschicoltura in Emilia Romagna ed in Veneto.
L’emergenza granchio blu
Questo ha legittimato la concessione nelle aree di maggior diffusione di questa specie invasiva di specifiche autorizzazioni statali per mettere in atto una raccolta emergenziale di granchi blu, ma ha portato anche a interrogarsi sulla possibilità di trovare nuove prospettive d’impiego per trasformare un problema in una risorsa economica, innanzitutto in quanto specie commestibile. Negli Stati Uniti e in Messico il granchio blu incontra da tempo il favore consumatori (tanto da raggiungere un valore commerciale di 150 € al kg) e anche in Italia non rappresenterebbe un novel food, in quanto pescato e commercializzato da ben prima del 15 maggio 1997. Dal 2017 il granchio blu fa parte della lista delle specie commerciali nazionali, con una denominazione obbligatoria (quella di ‘Granchio nuotatore’) e un prezzo che si aggira sui 15 euro al kg.
Il progetto di IZSVe e MASAF
Oggi un nuovo progetto dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), cofinanziato dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste (MASAF), punta alla valorizzazione di questo crostaceo in quanto potenziale risorsa proteica da poter sfruttare a fini alimentari, sia per consumo umano sia come materia prima per la produzione di farine ad uso zootecnico e per l’industria del pet food, oltre che come fonte di chitosano: una sostanza ottenuta dalla lavorazione della chitina presente nel carapace e utilizzata negli integratori nutraceutici in grado di ridurre l’assorbimento del colesterolo e dei grassi presenti negli alimenti, di contrastare sovrappeso e obesità, ipercolesterolemia, malattia di Crohn e di trattare le complicanze della dialisi.
Il progetto avrà una durata di 18 mesi (fino a giugno 2025) durante i quali verranno prelevati granchi blu provenienti dalle principali aree lagunari del Veneto, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia (in particolare Grado, Marano Lagunare, Caorle, Laguna di Venezia, Laguna di Scardovari, Goro e Cervia). L’obiettivo è valutarne la sicurezza alimentare e igienico-sanitaria, in particolare per quanto riguarda la possibile contaminazione delle carni da metalli pesanti, composti organici dannosi e composti chimici come clorurati PCB indicatori o idrocarburi clorurati, diossine e PCB-CL (utilizzati in ambito industriale fino agli anni ’90) e la presenza di eventuali patogeni.
Il parere di Valentina Tepedino
Per capire quali prospettive siano praticabili per trasformare il granchio blu da problema a risorsa per l’Italia, abbiamo chiesto alla dottoressa Valentina Tapedino, medico veterinario, direttore del periodico Eurofishmarket, membro del direttivo dell’Associazione Donne Medico Veterinario e referente del gruppo di lavoro sui prodotti della Società Italiana di Medicina Veterinaria Preventiva (SIMeVeP).
“Premesso che occorre uno sforzo immediato per stabilire il quadro per politiche di controllo e gestione efficaci per questa specie invasiva – spiega l’esperta – è fondamentale o meglio di estrema urgenza incentivare il prelievo costante del granchio blu, riconoscendo a questa attività un giusto ritorno economico”.
Il mercato del granchio blu italiano
Di fatto finora, per cercare di compensare il danno arrecato alla loro attività principale, sono stati gli allevatori di molluschi a riconvertirsi forzatamente in raccoglitori di diversi quintali di granchi blu al giorno, e a rivenderli a prezzi spesso insostenibili per non dover pagare anche i costi di smaltimento di un prodotto che, nonostante la massiccia presenza nelle acque nazionali, ha continuato ad essere importato a prezzi più competitivi da altri Paesi, come la Tunisia.
“Per porre fine a queste speculazioni, occorre una rapida strutturazione del mercato italiano del granchio blu, con la creazione di una filiera virtuosa, tracciabile e capace di valorizzare questo prodotto e assicurare il giusto riconoscimento economico a chi si impegna per renderlo disponibile e declinarlo in diverse forme a seconda del mercato di destinazione: dall’esemplare intero alla polpa lavorata e ai piatti pronti a base di granchio per una linea destinata all’alimentazione umana gourmet, fino alla farina e ai sottoprodotti destinati ad altri usi”. In più “è fondamentale che il consumatore sia adeguatamente informato in merito al fatto che, scegliendo il granchio blu italiano, sta partecipando a un progetto condiviso utile a sostenere una economia nazionale e la salvaguardia delle nostre risorse”.
Una filiera sostenibile?
Oggi in Italia stanno nascendo delle start up che investono in questo prodotto e sono in corso studi per valutare le possibilità d’impiego del granchio blu anche in settori diversi dall’alimentazione umana: nell’ambito della mangimistica per animali, del pet food, della nutraceutica, del biomedicale e della farmaceutica (anche attraverso l’estrazione della chitina dai carapaci). “Perché ciò avvenga e risulti sostenibile occorre mettere in campo tecnologie in grado di rendere la filiera il più possibile circolare e in grado di riutilizzare anche gli scarti all’interno di un meccanismo economicamente sostenibile, avallato da ricerche già avanzate all’estero, che devono solo essere applicate anche nel nostro Paese”.
La speranza è che, anche attraverso il coinvolgimento del MASAF, e i progetti in corso si possa promuovere una filiera sostenibile del granchio per trasformare un’emergenza in opportunità, facendo conoscere meglio le caratteristiche nutrizionali non solo per l’alimentazione umana, ma anche per quella animale e per le altre applicazioni attualmente oggetto di attenzione da parte della ricerca scientifica internazionale.
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