
Secondo il rapporto Assalso-Zoomark, la popolazione degli animali domestici in Italia nel 2023 ha raggiunto i 65 milioni, di cui 10,2 milioni di gatti e 8,8 milioni di cani. Una tale quantità determina grossi incassi nel settore del pet food: nel 2023 il mercato dei prodotti per l’alimentazione di cani e gatti nel nostro Paese ha sviluppato un giro d’affari che ha superato i 3 miliardi di euro. Spostando lo sguardo sugli USA, si stima che la spesa relativa agli animali da compagnia abbia raggiunto nel 2019 i 95,7 miliardi di dollari, il 38% dei quali nel segmento del food. Sono sufficienti tali numeri per capire che questa è una fetta di mercato molto produttiva – oltre che costantemente in crescita –, ma ciò su cui poco si riflette sono invece le implicazioni che porta con sé in termini di impatto sull’ambiente e di informazione poco chiara nei confronti dei compratori.
Pet food e sostenibilità
Il comparto del pet food è caratterizzato da due tendenze: la propensione ad acquistare cibo di alta qualità tanto che si potrebbe parlare di umanizzazione dell’alimentazione animale – attitudine presente soprattutto negli Stati Uniti, in Europa Occidentale e in Australia – e un crescente interesse per cibo definito sostenibile con il conseguente lancio di nuovi marchi. Crocchette o umido qualitativamente migliori significano spesso alta concentrazione di carne, condizione che si riflette sull’aumento di risorse utilizzate per la produzione. È noto infatti che gli ingredienti di origine animale sono responsabili di grosse emissioni di gas oltre a un importante consumo di suolo; anche per questo motivo la crescita della popolazione dei pet porta con sé un aumento dell’impronta ecologica, cioè quell’indicatore utilizzato per valutare l’impiego di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle.

Impronta ecologica
Vediamo qualche esempio. L’impronta ecologica della popolazione cinese di cani e gatti equivale a 70-245 milioni di cittadini cinesi a seconda delle dimensioni dell’animale e della dieta consumata e, in generale, si può affermare che l’impronta ecologica di un cane è simile a quella di un cittadino giapponese. In uno studio pubblicato su ScienceDirect è stata calcolata l’impronta globale degli alimenti per animali domestici sulla base delle diete secche degli Stati Uniti e il risultato è degno di nota: il pet food potrebbe essere responsabile fino al 2,9% della CO2 equivalente e fino all’1,2% dell’uso del suolo agricolo. È invece apparso sulla rivista Scientific Reports di Nature una ricerca che afferma che il cibo umido produrrebbe otto volte più emissioni di riscaldamento climatico rispetto a quello secco, mentre gli alimenti cucinati in casa si troverebbero nel mezzo.
Tra i possibili fattori che potrebbero arginare il problema dell’impatto sulle risorse ambientali si menziona l’uso di sottoprodotti di origine animale nel pet food, ma la soluzione non è così immediata. Se da una parte le frattaglie risultano commestibili per l’uomo laddove adeguatamente trattate, dall’altra potrebbe non esserci una quantità sufficiente di sottoprodotti provenienti dall’industria alimentare umana per nutrire la crescente popolazione di animali domestici. Non si può dunque escludere che una sempre maggiore domanda di pet food comporterà un aumento sulla produzione di carne.
Pet food e green claims
Forse anche per soddisfare la richiesta di cibo sempre migliore, capita spesso di imbattersi in pet food definito “naturale”, ma non è così facile capire rispetto a cosa poiché raramente l’etichetta riporta indicazioni più specifiche. Come abbiamo visto, quello degli alimenti per gli animali domestici è un mercato che in Italia vale oltre 3 miliardi di euro, un giro d’affari che porta con sé molta concorrenza e, di conseguenza, un marketing agguerrito. Quello a cui si assiste è il tentativo di catturare l’attenzione dei proprietari di cani e gatti enfatizzando qualche ingrediente anche se presente in percentuale irrisoria, oppure utilizzando diciture fallaci.

Rispetto alle informazioni ingannevoli circa la sostenibilità dei prodotti esiste l’ordinanza 2024/825/UE che, a partire dal 2026 anno dell’entrata in vigore, dovrebbe proteggere gli acquirenti dalle pratiche commerciali considerate sleali tra cui sono annoverate l’esibizione di marchi di sostenibilità non basati su un sistema di certificazioni. La definizione “naturale” rappresenta un tipico green claim, cioè una dichiarazione priva di evidenza concreta: un generico “natural nutrition” esibito sulla confezione non restituisce nessuna garanzia a meno che non si indichino i requisiti stabiliti dall’Unione Europea che sostengono la veridicità di tale asserzione.
Non c’è però da sorprendersi se anche questa fetta di mercato è caratterizzata dalla presenza di etichette poco chiare, ma allo stesso tempo accattivanti. L’umanizzazione degli animali a cui stiamo assistendo – basti pensare ai numerosi passeggini per cani che si vedono nelle vie delle città italiane – fa sì che i proprietari di cani e gatti siano sempre più attenti alla cura dei loro amici a quattro zampe, tendenza che il mercato è riuscito a capitalizzare.
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