
Il caporalato esiste anche nel Nord Italia, seppure con un volto diverso rispetto a quello del sud. Ma per fortuna ci sono anche esempi virtuosi: come Saluzzo, dove le istituzioni si stanno impegnando per una maggior tutela dei lavoratori agricoli. Sono i temi del dossier Gli ingredienti del caporalato – Il caso del Nord Italia, presentato giorni fa a Milano dall’associazione ambientalista Terra!, che prosegue così la ricerca avviata con un primo dossier dedicato alla Lombardia (di cui abbiamo parlato in questo articolo. “Combattere il caporalato – spiegano i responsabili di Terra!,– significa lavorare per un’agricoltura che possa fare impresa in maniera sana, tutelando l’ambiente e il benessere dei lavoratori”.
Il caporalato in Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia
Agli aggiornamenti sulla situazione della Lombardia, si aggiungono i dati su Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia, e in particolare sui comparti vitivinicoli e ortofrutticoli della provincia di Cuneo, il Prosecco della provincia di Treviso e le colture vitivinicole del Friuli Venezia Giulia. Situazioni diverse tra loro – basti pensare che il Friuli Venezia Giulia rappresenta il punto di arrivo della rotta balcanica che porta in Europa migliaia di migranti – che hanno però in comune il fatto di rappresentare produzioni identitarie, come il vino, da quello corrente alle etichette più prestigiose.

“Da aprile 2024, proprio le Langhe sono finite al centro di due inchieste giudiziarie per sfruttamento del lavoro, – ricorda Maria Panariello, che ha coordinato il report per Terra!, – un sintomo del fatto che il caporalato non risparmia nemmeno le aree di produzione più ricche, apparentemente estranee al fenomeno. E anche qui, le disfunzioni della filiera agroalimentare ricadono sui più fragili, lavoratrici e lavoratori perlopiù extracomunitari”.
Il ‘nuovo’ caporalato
Oggi il caporalato vecchio stile non esiste più: “Il fenomeno è meno visibile, le forme di sfruttamento sono più sofisticate”, afferma Eleonora Cavallari, condirettrice di Terra! Ma se i pomodori sono ormai raccolti con le macchine, le regioni collinari coltivate a vigne in Veneto richiedono una mano d’opera che è sempre più fragile e meno tutelata: in Italia, le stime parlano di 230 mila lavoratori impiegati irregolarmente in agricoltura, due quinti delle ore lavorate non sono regolari. “E se nel Sud si registra la maggioranza delle ore di lavoro agricolo non regolare, – si legge nel rapporto di Terra!, – al Centro-Nord il tasso di irregolarità oscilla tra il 20 e il 30%”.
Le dinamiche che emergono sono quelle già evidenziate nel rapporto dedicato alla Lombardia: il proliferare delle cosiddette ‘cooperative senza terra’, nate solo allo scopo di gestire la mano d’opera, “che però rispondono a esigenze reali supplendo alla carenza di infrastrutture, soprattutto alloggi e trasporti”, spiegano i responsabili di Terra!. Ma anche la diffusione di partite IVA fittizie, di società che usano codici ATECO non conformi per evitare i controlli legati all’agricoltura, e del lavoro grigio, che prevede di impiegare il lavoratore tutto l’anno ma registrando solo il numero di giornate necessarie per accedere alla disoccupazione agricola.

I lavoratori stranieri
Un fenomeno su cui pesa la fragilità della mano d’opera straniera, spesso richiedenti asilo ospitati nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), e reclutati grazie all’intermediazione di connazionali, il che rende più difficile far emergere le irregolarità: in alcune regioni poi i lavoratori dell’Est Europa si stanno spostando in altri Paesi alla ricerca di condizioni di lavoro migliori, sostituiti da lavoratori provenienti dall’Africa subsahariana o dall’Asia meridionale privi di una rete sociale, più fragili e ricattabili.
“Uno dei problemi centrali, – spiega il presidente di Terra! Fabio Ciconte, – è la legge Bossi-Fini che andrebbe cancellata semplificando le regole di ingresso e di reclutamento professionale dei lavoratori stranieri”. L’altro problema centrale sono i prezzi imposti dalla GDO, “che spesso costringono i produttori a vendere sotto costo”: un meccanismo di cui inevitabilmente fanno le spese i lavoratori che sono l’anello più debole della catena.

I primi cambiamenti
Qualcosa per fortuna sta cominciando a cambiare: come a Saluzzo, nel cuneese, una zona di produzione ortofrutticola già nota per gravi episodi di caporalato e sfruttamento, dove però negli ultimi anni la collaborazione tra enti pubblici, associazioni di categoria, organizzazioni del terzo settore e aziende agricole ha dato il via ad alcuni interventi mirati a migliorare le condizioni dei lavoratori agricoli, come l’adozione di un sistema strutturato di accoglienza, con percorsi di formazione e posti letto a disposizione nelle strutture locali. E la prefettura di Cuneo, seguendo il modello di Saluzzo, ha favorito di recente la firma di un Protocollo d’intesa tra 15 Comuni dell’Albese e il Consorzio di tutela per promuovere condizioni di lavoro dignitose e contrastare lo sfruttamento della manodopera stagionale.
E qualcosa si muove anche in Lombardia: grazie anche alla mobilitazione di alcuni consiglieri regionali, sono state avviate delle audizioni presso la commissione agricoltura della regione, ed è stato proposto un pacchetto di raccomandazioni mirate a prevenire e contrastare il fenomeno. Si tratta comunque di un percorso difficile, a causa della scarsa sensibilità delle istituzioni sul tema: “finora, – notano i rappresentanti di Terra! – in Lombardia si è parlato di vigilanza e controllo del fenomeno, non di iniziative mirate a risolvere le criticità che lo producono”. E i dieci punti che Terra! ha proposto di inserire in una prossima legge regionale prevedono tra l’altro l’istituzione di un sistema informativo regionale, un Osservatorio regionale sul lavoro, interventi sugli alloggi e sui servizi di trasporto e la promozione dell’adesione delle imprese agricole lombarde alla Rete del lavoro agricolo di qualità, che seleziona imprese che garantiscono un’organizzazione del lavoro etica e rispettosa della legge.
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giornalista scientifica
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