Si parla di caporalato, di sfruttamento dei lavoratori agricoli, e si pensa all’Italia meridionale, alla raccolta dei pomodori o degli ortaggi in Campania o in Puglia. Ma in realtà si tratta di un problema nazionale, che coinvolge anche le Regioni del nord. Lo dimostra il rapporto Cibo e sfruttamento Made in Lombardia realizzato dall’associazione Terra! che ha scelto di analizzare – all’interno di una delle prime Regioni in Italia per il comparto agroalimentare, con una produzione del valore di 14 miliardi di euro – tre diverse filiere, la coltivazione dei meloni nel mantovano, la produzione delle insalate di quarta gamma (lavate e pronte al consumo) in particolare nel bresciano e nel bergamasco, e l’allevamento dei suini.
Il rapporto sul caporalato
Il rapporto ha l’obiettivo di sensibilizzare le istituzioni sulle criticità del settore, che riguardano soprattutto lavoratori stranieri. Si va dall’esistenza di una sorta di caporalato legalizzato gestito attraverso cooperative “senza terra” nate per gestire la mano d’opera, all’esternalizzazione con contratti scarsamente remunerativi, a forme di lavoro grigio con tutele parziali: molti lavoratori si vedono riconosciute meno giornate di quelle effettivamente lavorate, con buste paga molto basse.
“Si parte dal presupposto che il problema esista solo a Sud, mentre ci siamo resi conto che è un elemento disfunzionale del settore agroalimentare nel suo insieme: in Lombardia anzi sono diffuse strategie raffinate che è più difficile individuare”, spiega Maria Panariello di Terra! precisando che all’inizio del 2025 uscirà un report più completo sull’Italia settentrionale.
Non è facile prendere atto che anche in Lombardia ci sono questi problemi, “spesso manca la consapevolezza dei diversi attori della filiera, anche dei lavoratori”, aggiunge Maurizio Franco, uno degli autori del rapporto. Anche se poi dei controlli ci sono: quando abbiamo svolto l’indagine, abbiamo visto e abbiamo avuto conferma dagli organi di controllo del fatto che molte cooperative pur operando sul territorio lombardo avevano sede in Veneto”.
Sfruttamento e GDO
All’origine del problema c’è il rapporto tra produttori e Grande Distribuzione Organizzata (GDO) che impone le proprie condizioni “la filiera alimentare è in crisi, anche per questioni climatiche, e la GDO punta a ottenere prezzi sempre più bassi agendo quasi unicamente sul costo del lavoro”, spiega Panariello. “Tra le altre cose, abbiamo condotto una lunga campagna contro le aste a doppio ribasso, vietate in modo definitivo nel 2021 (ne abbiamo parlato qui) con la direttiva europea n°633, che vieta una serie di pratiche sleali messe in campo dalla GDO nei confronti dei fornitori, tra cui le aste”, ricorda la portavoce di Terra!.
Per questo l’indagine non è solo una denuncia dei casi di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, “ma cerca di ricostruire i costi delle filiere analizzate, per capire come i ribassi imposti dalla grande distribuzione pesino sui produttori”, sottolinea Franco. E oltre a sollecitare alla Regione Lombardia l’approvazione di norme contro il caporalato – come si sta già facendo in altre Regioni come la Toscana e il Lazio -Terra! chiede alla GDO di rinunciare a politiche promozionali aggressive come i sottocosto che finiscono col ricadere sulle spalle dei produttori e dei lavoratori.
I contratti
A rendere più complessa la situazione c’è il fatto che in agricoltura esistono diversi contratti, secondo le filiere, a giornata o a chiamata: “Il lavoro nero vero e proprio esiste, ma è ormai residuale”, spiega Panariello, “grazie anche alla legge 199/2016 che ha agito da deterrente contro lo sfruttamento dei lavoratori”. Di questa legge resta però da mettere in pratica la parte di prevenzione e “proattiva”, che impedisce di arrivare a situazioni di sfruttamento.
Il vero problema è il lavoro grigio, largamente diffuso nel comparto alimentare con procedure formalmente legali come l’esternalizzazione, con l’applicazione di contratti diversi, tra cui il multiservizi, che offrono salari più bassi e minori tutele, oppure in agricoltura le cooperative “senza terra” nate per gestire la mano d’opera. In genere a essere intercettati sono soprattutto lavoratori stranieri in condizioni di marginalità, più facilmente ricattabili e meno tutelati, anche per le difficoltà del decreto flussi: “che finisce spesso per rendere irregolari i lavoratori che partecipano al click day, disposti quindi a partire dai loro Paesi e a venire in Italia per lavorare”, osserva Panariello.
Mentre spesso gli italiani sono assunti direttamente dalle aziende “e può succedere”, si legge nel rapporto, “di trovare lavoratori con mansioni identiche ma con contratti e orari molto diversi“. “Non è facile avere informazioni su queste situazioni”, spiega Franco, “siamo riusciti a contattare i lavoratori attraverso alcune associazioni, come Lule onlus nel mantovano, oppure a parlare con i sindacati”.
Dove si insinua il caporalato
Anche i cambiamenti del lavoro agricolo rendono più complessa la situazione: se una volta esisteva una certa stagionalità, “ora in settori come la quarta gamma, dove tutto è prodotto in serra, si produce continuamente, spesso lavorando alla trasformazione in ambienti refrigerati per garantire la qualità del prodotto”, spiega Panariello. Senza dimenticare i problemi relativi all’ambiente e al benessere animale legati agli allevamenti e alle coltivazioni intensive. Lo sfruttamento dei lavoratori nasce da una debolezza di filiera “ma anche dalle carenze dello Stato”, prosegue la rappresentante di Terra!, “I centri per l’impiego non riescono a gestire le domande di lavoro, senza contare l’assenza di servizi di trasporto e di alloggi”.
In una situazione come questa, il ruolo del caporale è centrale perché colma questi vuoti. E quindi da salari spesso molto bassi, anche cinque euro l’ora, il caporale preleva le quote per il mangiare, il trasporto e un posto letto: “in questo modo”, spiega Franco, “i lavoratori finiscono per non trovarsi in tasca niente o quasi”.
Pochi virtuosi
Dal rapporto emerge insomma una visione dell’agricoltura interessata alla logica del profitto più che alla qualità, e alla tutela degli operatori e dell’ambiente. Per fortuna ci sono anche eccezioni: “ci sono tante aziende gestite anche da giovani che cercano di realizzare filiere sostenibili”, spiega Panariello, o buone pratiche istituzionali come il Tavolo della buona agricoltura istituito dal comune di Sermide, “e il progetto Multitasking realizzato da Lule in collaborazione con la prefettura di Mantova”, conclude Franco, “o, tra le aziende, il Consorzio Agrituristico mantovano che riunisce imprese che convergono sui mercati agricoli per rompere il rapporto che vincola le aziende alla GDO”.
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