Hanno fallito in Europa, dove neppure la campagna Ceci n’est pas une steak è servita a far passare l’emendamento 165, della relazione AGRI che mirava a vietare per i prodotti vegetali le denominazioni come “bistecca“, “salsiccia“, “scaloppina“, “burger” e “hamburger”, e allora l’Italia ci riprova.
Perché i produttori di carne e derivati, sostenuti in ogni sede dalle Lega e dagli partiti di governo, non si rassegnano all’idea che le persone abbiano capito che è necessario mangiare meno carne, che i sostituti vegetali della carne stiano incontrando un favore crescente, e soprattutto che possano chiamarsi burger, crocchette, o mortadella: sarebbe, secondo loro, una gravissima lesione del Made in Italy, concetto cui hanno dedicato nientemeno che un ministero. E allora propongono una legge che, anche qualora fosse approvata, sarebbe di scarsa applicazione, per diversi motivi, uno dei quali paradossale.
Non potendo varcare i confini, la legge si applicherebbe soltanto ai prodotti realizzati e venduti in Italia. I quali sono ben pochi, essendo anche il mercato dei prodotti vegetali in gran parte internazionale. Si creerebbe quindi una situazione per cui un burger prodotto da un’azienda internazionale ha questo nome, mentre uno realizzato da un’azienda italiana, si dovrebbe chiamare, come si suggeriva in Europa “dischetto”, e una salsiccia “tubo”.
La proposta di legge precisa all’articolo 1 che al fine di non indurre il consumatore in errore circa le caratteristiche dell’alimento, i suoi effetti o le sue proprietà, per denominare un prodotto trasformato contenente proteine vegetali è vietato l’uso di:
a) denominazioni legali riferite alla carne, a una produzione a base di carne o a prodotti ottenuti in prevalenza da carne;
b) riferimenti a specie animali o a gruppi di specie animali o a una morfologia o a un’anatomia animale;
c) terminologie specifiche della macelleria, della salumeria o della pescheria;
d) nomi di alimenti di origine animale rappresentativi degli usi commerciali.
Il testo continua poche righe sotto: “I prodotti legalmente realizzati o commercializzati in un altro Stato membro dell’Unione europea, in un altro Stato che è parte dell’accordo sullo Spazio economico europeo o in Turchia non sono soggetti ai requisiti previsti dalla presente legge, a condizione che gli obiettivi generali di sostenibilità finalizzati alla tutela dell’ambiente e della salute umana, animale e vegetale e agli interessi dei consumatori, di cui all’articolo 1, siano riconosciuti dalle disposizioni dello Stato di origine.
Se lo scopo è, come dichiarato “non indurre il consumatore in errore”, ammettere denominazioni differenti per lo stesso tipo di prodotto non sembra la soluzione più efficace. Senza contare che i consumatori, che da anni trovano i sostituti vegetali nei negozi italiani, hanno da tempo imparato a distinguere. Ma secondo i legislatori, “possono essere indotti a credere che il prodotto a base vegetale abbia un esatto equivalente nutrizionale (e magari che lo stesso sia stato lavorato con le medesime tecniche e cure tradizionali dell’arte salumiera) del prodotto a base di carne”. Cioè, acquisterebbero mortadella vegana pensando che sia identica a quella ottenuta dal maiale, sia per contenuto nutrizionale che per lavorazione. Un popolo di persone con serie difficoltà cognitive, evidentemente.
Ma questo aspetto è centrale, nel testo, che recita anche: “questi prodotti ottenuti mediante la lavorazione di vegetali che vengono macinati, mischiati, arricchiti con aromi e addensanti non hanno nulla a che fare, dal punto di vista nutrizionale, con i veri prodotti della zootecnia: vitamine, proteine, sali minerali (e spesso anche apporto calorico complessivo) sono sideralmente distanti da quelli dei prodotti della zootecnia. Ci si trova così a proporre al consumatore delle alternative di consumo che non hanno tuttavia lo stesso apporto, ricchezza e valore nutrizionale. Gli alimenti di origine zootecnica, è bene ricordarlo, sono gli unici a riuscire ad apportare nelle giuste quantità determinati nutrienti essenziali come le proteine e gli amminoacidi e, nelle giuste proporzioni, si inseriscono correttamente in un regime nutrizionale bilanciato”. E anche in questo punto, è lo stesso testo, che ripropone le campagne di Coldiretti e dei produttori lanciate negli ultimi mesi quasi parola per parola, a far capire quanto la presa di posizione sia demagogica, e non abbia nulla a che vedere con la scienza. Riunire in un’unica famiglia prodotti diversissimi, alcuni dei quali effettivamente poveri dal punto di vista nutrizionale, talvolta ultraprocessati a tutti gli effetti, con altri che contengono meno grassi della carne e proteine altrettanto nobili, e sostenere che la carne è l’unica che può apportare nutrienti essenziali nelle giuste quantità è semplicemente falso, e fa capire come si tratti di una battaglia che difende interessi specifici.
La proposta liquida in una pagina una tematica enorme, non fa alcun accenno alla necessità di consumare meno carne (rispetto ai consumi medi attuali) per tutelare la salute, ribadita da tutte le autorità scientifiche mondiali in più sedi e ormai da anni.Non si parla di bessere animale né dell’esigenza di ridurre la produzione per cercare di limitare le emissioni di gas serra e contenere il riscaldamento climatico.
Non contenti, i proponenti chiosano con l’altro cavallo di battaglia degli ultimi mesi: lo spauracchio del cosiddetto cibo sintetico (come se il salame crescesse sugli alberi italici), inserendo in quello che potrebbe diventare un testo di legge la seguente affermazione: “Il cibo sintetico rappresenta un mezzo pericoloso per distruggere ogni legame con il cibo naturale e con i diversi territori, cancellando ogni distinzione culturale, spesso millenaria”.
Un grossolano pasticcio che probabilmente, anche se passasse, sarebbe bocciato dalla Consulta. E gli estensori ne sono talmente consapevoli, che non hanno previsto nessun provvedimento tipo il sequestro, ma soltanto una multa da 500 euro a 7.500 euro. La salute delle persone, quella degli animali e quella del pianeta, per loro, è solo una questione di denaro.
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Giornalista scientifica
D’accordo su (quasi) tutto, ma vi sembra giusto che l’industria vegana scimmiotti nelle forme e nelle denominazioni i prodotti a base di carne? E soprattutto, perché? Complessi di inferiorità?
Mah, il tono dell’articolo è un po’ troppo da “apostolo del green-veganismo” ma i contenuti sono in parte condivisibili e la proposta di legge è grottesca. Sul perché riprendere nomi di prodotti non vegani è da tenere presente che rappresentano una definizione “tipo” di alcuni alimenti o preparati e denominandoli così è più facile comunicare cosa si può aspettare il consumatore; d’altra parte spesso fra i softdrink si usa il termine “cola” per una bevanda genericamente gassata, scura, dal sapore dolce acidulo e aromi vari.
Non sono d’accordo sul termine “scimmiottare”, perché i nomi degli alimenti non contengono l’ingrediente principale di cui è costituito, ma solamente la FORMA-FUNZIONE che ha e che svolge.
Quindi legittima proprietà lessicale appellare la forma-funzione ed evidenziare, a norma di legge, di cosa è fatto l’alimento.
Perché sarebbe ingiusto? Non basta indicare che il prodotto è vegetale? Quale è il problema?
Da sempre esistono prodotti dai termini quali salame di cioccolato, latte di mandorla, burro di arachidi, colomba di Pasqua, fagioli all’uccelletto e così via…
“e sostenere che la carne è l’unica che può apportare nutrienti essenziali nelle giuste quantità è semplicemente falso, e fa capire come si tratti di una battaglia che difende interessi specifici.” quoto tutto. d’altronde basta andarsi a vedere il video che ha creato la Coldiretti sul loro canale Youtube in cui parla delle “fake news” legate alla carne. Cherry picking di pregevole fattura
Non ho visto cenni su latte e latticini vegetali. Non erano previsti nella proposta della normativa europea bocciata e se sono contemplati nella proposta di legge italiana.
Grazie
Gentilissimo, l’uso di nomi ‘latte’, ‘formaggi’, ‘yogurt’ e tutte le altre denominazione legate ai prodotti lattiero-caseari è già vietato per i sostituti vegetali a livello. Lo ha ribadito una sentenza della Corte di giustizia europea del 2017, ma in Italia era già vietato da un Regio Decreto del 1929. Lo ha spiegato Roberto Pinton in questo articolo: https://ilfattoalimentare.it/latte-di-soia-notizia-pinton.html
Non basterebbe aggiungere gli aggettivi vegano/a vegetariano/a al sostantivo bistecca, burgher, salsiccia… con buona pace di tutti?
Meglio evitare vegano, che è un termine riferito alle persone e non ad un alimento e non renderebbe chiara comunque l’eticità del prodotto in riferimento allo sfruttamento animale. Più corretto parlare di vegetale se si tratta di un prodotto che non contiene alcun derivato animale.
Accanirsi sui nomi dei cibi, piatti etc… sono battaglie che davvero non capisco, etimi X loro natura variabili e influenzabili da tantissimi fattori, per oltre metà della mia vita quello che adesso si chiama hamburger era la “svizzera” chiamare quello vegetale dischetto mi sembra solo materiale X gag comiche, inventarsi un nome nuovo? Può essere una soluzione ma a che pro?
Sempre d’accordissimo con lei Dott.ssa Codignola. Grazie.
Il favore crescente dei prodotti vegetali di finta carne lo vedete solo voi.
In America, dove fa tendenza prima che da noi, Impossibile Food e Meat Beyond vedono decrescere i loro fatturati e il mercato sta collassando rispetto ai numeri preventivati in origine.
Certo continuano a vendere, ma non incontrano il gusto degli onnivori o semplicemente flexitariani, e rimangono a livello di nicchia. Il costo di produzione è maggiore del venduto e adesso sia Beyond che Impossible perdono soldi e per Impossible food si parlava pure di licenziamento di almeno il 20% della forza lavoro
Molto rumore per nulla, se mi si consente la citazione…
In primis, non ha senso dire che i prodotti imitazione a base vegetale “sono salvi”, la proposta NON era di VIETARLI ma solo di DARE LORO UN NOME NON INGANNEVOLE.
E poi, sorvolando per carità cristiana sulle ridicolaggini di “piastrella, pallina, tubo, tondino, bullone”, che riecheggiano gli Italici “Cialdino” e “Bevanda Arlecchino”, per porre fine alla polemica basterebbe che in etichetta, per legge, davanti al nome del prodotto fosse apposto “VEGETAL” o “VEGAN”, a seconda del caso che ricorre.
Di fronte, ad esempio, a un “VEGETALburger” o a un “VEGANburger” neppure il consumatore con il QI di una vongola e più disorientato di un nudista in mezzo a uno sciame di vespe rischierebbe di mettere nel carrello per distrazione un prodotto per un altro.
Ma probabilmente è troppo semplice, se una legge non portasse a discussioni infinite in fase di stesura e approvazione che ce ne faremmo di milioni di avvocati disoccupati?
Assolutamente d’accordo con l’articolo. Una idiozia al seguito della lobby agraria
Sono perfettamente d’accordo. Sono anni che i vegetariani e i vegani mangiano hamburger vegetali, io non sono una di questi, ma sono convinta che bisogna ridurre drasticamente l’uso della carne per il bene del Paese e voglio perciò essere libera di scegliere.
Ogni articolo che trovo è utile perché mi mette a disposizione informazioni che non troverei da nessun’altra parte. Informazioni utili per scegliere in modo consapevole i cibi adatti e, cosa non da poco, in firmare su frodi e prodotti ritirati.