In relazione alla notizia “Il latte di soia non esiste: la sentenza della Corte di giustizia europea”, segnalo che non introduce la minima novità. Com’è facile verificare leggendo le diciture sulle confezioni in qualsiasi punto vendita, nessuna impresa denomina il suo prodotto “latte di soia”, “latte di riso” o “latte di avena”: la denominazione è soltanto “bevanda di soia”, “bevanda di riso” o “bevanda di avena”. L’art. 78 del reg. 1308/2013 riserva con assoluta chiarezza le denominazioni alle categorie indicate nell’allegato VII, la cui parte III comprende latte e prodotti lattiero-caseari.
Ma il regolamento 1302/2013 viene solo da ultimo: le denominazioni erano riservate da molto prima (da noi si risale al Regio decreto n. 994/1929, che definisce il latte, e Regio decreto legge n. 2033/1925, che definisce “formaggio o cacio”). Sì, proprio dal 1925 e 1929.
La sentenza del 14 giugno è quindi una “non-notizia”, visto che è almeno dal 1929 è vietato denominare un prodotto “latte di soia”. La “notizia”, se tale la si vuol considerare, è che la corte europea ha ritenuto che un operatore tedesco che contravveniva alla norma, non potesse farlo, il che è più che scontato. Per quanto riguarda altre categorie merceologiche (il caso del cosiddetto “meat sounding”), nessuna norma europea o nazionale riserva le denominazioni “polpette”, “spezzatino”, “burger”, “würstel”, “medaglione”, “crocchetta”, “cotoletta”, “fettina”, “ragù”, “bastoncino” ai prodotti della macelleria, quindi non vedo proprio come allevatori e industria della carne possano pretendere che tali denominazioni siano esclusivamente “cosa loro”.
Uno “spezzatino di soia”, un “würstel di salmone” (ma, a ben vedere, anche di pollo e/o tacchino), un “ragù di pesce”, una “polpetta vegetariana”, un “medaglione vegano” o delle “fettine di seitan*” non traggono in inganno un alfabeta (a quanto sembra, questa è la maggior preoccupazione di un’industria della carne insolitamente altruista) né turbano il mercato: difficile pensare che chi sceglie uno “spezzatino di soia”, se lo vedesse denominato “preparazione di soia”, lo lascerebbe sullo scaffale per buttarsi sull’analogo carnivoro o su del girello di spalla…
Il rilievo mediatico che l’industria della carne (quella che ha commissionato l’interrogazione al peraltro generalmente buon De Castro e al collega La Via) sta dando in questi giorni sulla sentenza, chiedendo l’inibizione agli operatori dell’uso di denominazioni del tutto libere, è strumentale e poco lodevole. Evidentemente non è andata giù la chiarissima risposta che ha ricevuto il 19 dicembre 2016 l’interrogazione che il CNA ammette d’aver predisposto, trovando in De Castro/La Via solo dei cortesi e servizievoli messaggeri (vedi notizia): “La Commissione ribadisce come NON si preveda attualmente di introdurre nuove denominazioni tutelate per i prodotti a base di carne, ritenendo che le disposizioni applicabili offrano una base giuridica sufficiente per tutelare i consumatori da indicazioni ingannevoli”.
L’allegato VI parte A, punto 4 del Reg UE 1169/2011 non è particolarmente oscuro: “Nel caso di alimenti in cui un componente o un ingrediente che i consumatori presumono sia normalmente utilizzato o naturalmente presente è stato sostituito con un diverso componente o ingrediente, l’etichettatura reca una chiara indicazione del componente o dell’ingrediente utilizzato per la sostituzione parziale o completa”: una denominazione come “würstel di soia” risponde perfettamente alla bisogna (piaccia o meno il “würstel di soia”). Considerazioni diverse non attengono al campo del diritto, ma a quello del tifo, da cui, non frequentando le curve degli ultras, devo sganciarmi.
L’industria della carne dovrebbe far prima chiarezza al suo interno: Principe di San Daniele Spa e Giuseppe Citterio Spa (soci dell’Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi di Confindustria) propongono al pubblico würstel vegetariani e lo stesso fa Kioene Spa, spin off di Padoa Spa (socio di Assocarni, Associazione Nazionale Industria e Commercio Carni e Bestiame, sempre di Confindustria).
Roberto Pinton
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Articolo semplicemente fantastico…
Le denominazioni utilizzabili non sono solo quelle legali ma anche quelle usuali e quelle descrittive. Se è vero che non esiste una denominazione legale di hamburger e quindi si usa quella usuale è ‘usuale” pensare all’hamburger come ad un prodotto a base di carne e non a base vegetale.
Inoltre la sentenza sostiene che non possono essere utilizzate le usuali e le descrittive, probabilmente facendo riferimento all’art. 7 lettera c) del Reg. 1169/11 che annovera tra le pratiche sleali quelle che suggeriscono che l’alimento possiede caratteristiche particolari,quando in realtà tutti gli alimenti analoghi possiedono le stesse caratteristiche, in particolare evidenziando in modo esplicito la presenza o l’assenza di determinati ingredienti e/o sostanze nutritive. Un alimento analogo all’hamburger non può dunque esplicitamente evidenziare che non contiene carne, usando il termine vegano.
Io la vedo così.
@Luigi.
Scrivi “ è ‘usuale” pensare all’hamburger come ad un prodotto a base di carne e non a base vegetale”.
Vero, ed è proprio per questi che l’allegato VI parte A, punto 4 del Reg UE 1169/2011 indica con esemplare chiarezza: “Nel caso di alimenti in cui un componente o un ingrediente che i consumatori presumono sia normalmente utilizzato o naturalmente presente è stato sostituito con un diverso componente o ingrediente, l’etichettatura reca una chiara indicazione del componente o dell’ingrediente utilizzato per la sostituzione parziale o completa”.
Quindi un “würstel” (denominazione non riservata) che un consumatore si attende esser costituito da carne (separata meccanicamente, ma questo è un altro discorso) suina più una serie di ingredienti minori, qualora sia a base di tacchino indicherà chiaramente “würstel di tacchino”, qualora sia a base di pollo indicherà altrettanto chiaramente “würstel di pollo”, qualora sia a base di salmone indicherà chiaramente “würstel di salmone”, qualora sia a base di soia indicherà chiaramente “würstel di soia”, nell’assoluto rispetto dell’allegato VI (“l’etichettatura reca una chiara indicazione del componente o dell’ingrediente utilizzato per la sostituzione parziale o completa”), sostituzione parziale e completa che lo stesso punto prevede espressamente e dà per assolutamente lecita, purchè trasparente.
Da addetto ai lavori, più di una norma in materia alimentare non mi piace: me ne faccio una ragione.
In questo caso a farsene una ragione dovrebbe essere il settore della carne, dai tuoi allevatori all’industria di trasformazione.
Riporto da altro articolo in tema, un mio commento per un confronto senza considerare le norme in vigore, ma per stimolare la ricerca di una base di principio su cui basare, a mio parere, le normative sulle varie denominazioni.
Il principio dirimente per la denominazione di un alimento non è la ricetta ne la composizione, ma la FORMA-FUNZIONE che ha.
La forma (lattiginosa, cremosa, dura strutturata con forme diverse) rappresenta esteticamente l’alimento, la funzione ne indica l’uso.
Quindi stessa forma-funzione = stessa denominazione.
La ricetta e/o composizione lo caratterizza, lo distingue e ne indica la differenza di contenuto, di gusto e di apporti nutrizionali.
Quindi latte di (vacca, capra, cammella,… riso, soia, avena, mandorla,…), poi BURRO di (vacca,… soia, mandorle, nocciole, di cacao,…), poi FORMAGGIO di soia, mozzarella di riso, …PASTA di grano duro, avena, segale, soia, lenticchie, ceci,…poi SPIEDINI di maiale, vitello, agnello,… soia, seitan di grano, lupino,…poi HAMBURGER di maiale, pollo, soia, seitan di grano, ceci,…poi WURSTEL di maiale, di pollo, tacchino, soia, lupino, seitan di grano, ceci,…poi BRESAOLA di vitello, maiale, pollo, tacchino, lupino, seitan di grano,….
Escludendo quelli a denominazione ed origine protetta (DOP, DOC, IGP,..), tutte le preparazioni alimentari dovrebbero seguire il principio della denominazione secondo la FORMA-FUNZIONE, senza escludere nessuno e senza privilegiare alcuno, ma seguendo solamente la logica della terminologia applicata a tutti.
Tanto poi ci pensa il consumatore a chiamare le cose con il loro vero nome, infischiandosene di norme incomprensibili ed anacronistiche per i soli addetti ai lavori, in conflitto d’interessi propri e di categoria.
il principio che lei riporta viene praticato nel gergo comune quotidiano ma non si può prescindere dalla storia della denominazione stessa e dall’uso radicato che se ne fa in una cultura.
Ad esempio il formaggio è il prodotto della coagulazione di tipo presamica o fermentativa del latte, che è il prodotto della mungitura regolare di animali ecc. ; sono denominazioni che storicamente vanno al di là della forma-funzione ed intrinsecamente rappresentano anche la tecnologia di produzione e sono riconosciuti da tutti come tali.
Un seme che viene cotto e “frullato” nell’acqua a cui sono aggiunti dolcificanti e aromi, non può essere latte solo perché assomiglia come colore e consistenza a ciò che viene munto, né tantomeno la tecnologia di produzione ricorda l’originale, e così il termine bevanda è più che appropriato.
Discorso interessante può essere fatto su una pianta che secerne un nettare da un organo e la cui estrazione debba prevedere un gesto simile alla mungitura, allora il termine latte potrebbe essere più appropriato, ma per non creare confusione andrebbe comunque chiamato in altro modo e qui nettare ci sta bene.
Sul burro dato che storicamente si accetta che i grassi solidi possano prendere il nome che spetterebbe allo zangolato di crema di latte es. cacao, karité, ed esiste il termine margarina che definisce tecnologicamente una emulsione di olio e acqua non vedo un grande dibattito.
La “pasta” secca che in Italia è solo quella di grano duro, è una denominazione che protegge anche la qualità dall’aggiunta di grano tenero che non ha le caratteristiche tecnologiche per ottenere quelle peculiarità per cui è riconosciuta (sono escluse quelle all’uovo). Se si volesse liberalizzare il termine, la quantità di miscele possibili che si potrebbero creare con cereali e legumi sotto il nome generico di pasta creerebbe non poca confusione, e sarebbe difficile prevedere la qualità soprattutto dal consumare medio che non legge le etichette o non sa cosa significhino.
Sulle diciture di burger (senza ham-) e wurstel si potrebbe liberalizzare perché già nella nostra cultura sono preparazioni i cui ingredienti variano e dove la forma e la consistenza prevalgono come riconoscibilità sulla composizione, ma diverso discorso farebbero in paesi dove sono piatti tradizionali.
Solo un commento semplice semplice per molte considerazioni variegate, ma tutte strenuamente conservatrici di tradizioni che non sono altro che abitudini del passato.
Tutto ciò che diventa nuovo costume costituisce abitudine, quindi radica nuove tradizioni che prima non esistevano ed aggiornano il patrimonio culturale di una comunità, permettendole di sopravvivere ed aggiornarsi per non morire di soli bei ricordi.
Un solo esempio che vale per tutti gli altri:
nel passato tradizionale la pasta si faceva solo a mano ed essiccava all’aria, se lei vedesse gli impianti moderni dove nessuno tocca più nulla ed è essiccata (precotta) anche oltre 100°C. le toglierebbe il diritto di chiamarsi appunto pasta, perché di tradizionale c’è rimasta solo la forma e la funzione.
ho letto altri suoi commenti ed ho cercato di comprendere le sue ragioni: in pratica lei ha paura che le persone intolleranti, allergiche e vegane, che saranno la maggioranza della popolazione, abbiano un accesso limitato al cibo dato che il “coagulato di proteine di soia” non si possa chiamare formaggio come la sua alternativa frutto di una abitudine del passato; oppure che vecchi conservatori siano limitati nel scegliere le alternative, magari iniziando col comprare per sbaglio una mozzarella di lupino.
Ritengo invece che siano opportuni altri nomi, almeno in questa fase di affiancamento ai prodotti tradizionali, almeno fino a quando non verranno soppiantati dai nuovi-ormai vecchi prodotti. Prodotti come il tofu o il setain non hanno avuto bisogno di chiamarsi formaggio di soia o petto di glutine per imporsi sul mercato ed essere riconoscibili. Ma così pure le bevande di soia che io stesso acquisto le trovo di fianco al latte, le riconosco e non c’è nessun problema.
Sulla pasta è assurdo il suo ragionamento, cambiano i macchinari, i tempi, ma la tecnologia intesa come operazioni unitarie è la medesima; ma il punto non è questo, fusilli e spaghetti sono nomi liberi usabili per qualsiasi tipo di cereali e legumi, ma pasta sulla confezione è quella di solo grano duro per proteggere la qualità dall’aggiunta di grano tenero, cosa che si fa in altri paesi, e forse il fatto che la pasta italiana è apprezzata all’estero sta anche in questo. E questo concetto va pure oltre le denominazioni di origine. Non vi è nessuna discriminazione, la pasta di farro e di mais-riso senza glutine la trovo nello scaffale da parte ed il fatto che non ci sia scritto pasta non mi limita nell’acquisto e chieda a un celiaco.
No la mia è solo una questione di principio inclusivo e non escludente a tutto quello che diviene costume.