Sempre più spesso troviamo sugli scaffali dei supermercati imballaggi e articoli destinati al contatto con alimenti pubblicizzati come “contenenti plastica riciclata”.
Un’indicazione che non è obbligatorio apporre, in quanto né la misura riguardante l’etichettatura ambientale degli imballaggi, né il più recente Regolamento sulle plastiche riciclate destinate al contatto con alimenti 2022/1616 la impone. Un messaggio che tuttavia molte aziende inseriscono in etichetta perché fa breccia sulla sensibilità ambientale dei consumatori, ma che, alla luce dei più recenti studi sul riciclo della plastica e sui materiali risultanti, dovrebbe essere imposto per legge. Offrendo così al consumatore la possibilità di scegliere se acquistare e utilizzare un articolo quando è realizzato, interamente o parzialmente, con plastica riciclata.
Sembra un paradosso, ma molti studi gettano di fatto ombre sulle possibili contaminazioni presenti nei polimeri riciclati e i rischi di migrazione delle sostanze chimiche ad esse correlate; in aggiunta, la chimica dei materiali plastici si rivela una sorta di ‘scatola nera’. Negli Stati Uniti, la regolamentazione è scarsa e nell’Unione Europea i test attualmente utilizzati per rilevare le sostanze chimiche presenti nella plastica riciclata risultano poco incisivi.
Tra i segnali più rilevanti di quanto sia necessario aprire un nuovo tavolo di discussione sull’uso della plastica riciclata in campo alimentare vi è per esempio lo studio proveniente dalla Cambridge University, realizzato in collaborazione con la Food Packaging Forum Foundation di Zurigo. Revisionando centinaia di pubblicazioni scientifiche sulla plastica, i ricercatori sono riusciti a fornire una visione globale delle sostanze chimiche in grado di contaminare gli alimenti, con risultati sorprendenti.
Gli studiosi hanno identificato ben 853 sostanze chimiche capaci di migrare dalla plastica riciclata, molte delle quali scoperte soltanto negli ultimi due anni. Ciò che preoccupa è che alcune di queste sostanze sono state costantemente rilevate durante le analisi, mentre altre (circa il 57,6%) sono state riscontrate solo in un’unica occasione, dimostrando così la notevole variabilità e la mancanza di pieno controllo nel processo di riciclaggio. Tra le sostanze più frequentemente individuate si annoverano l’acetaldeide e l’antimonio, ma anche diversi ftalati (come il DEHP, DBP, DEP, DMP, DIBP), metalli pesanti, acido tereftalico, aldeidi e oligomeri ciclici.
Difficile determinare i meccanismi per cui tali sostanze siano presenti ma – secondo lo studio – potrebbero essere attribuibili all’aggiunta di sostanze chimiche durante il processo di riciclaggio, alla presenza di impurità nei materiali di partenza, a contaminazioni nel flusso di riciclaggio, a reazioni chimiche tra diverse sostanze o all’assorbimento di composti chimici da parte della plastica durante gli utilizzi precedenti.
Si tratta tra l’altro di sostanze che, a detta dei ricercatori, potrebbero accumularsi nel materiale riciclato e successivamente migrare nei prodotti alimentari con il rischio concreto di un’esposizione cronica dei consumatori. Persino nel caso di plastiche ritenute “rodate” come il PET, materiale principe nel campo dell’imbottigliamento. Rilevante a tal proposito lo studio coordinato dalla Brunel University di Londra e pubblicato sul Journal of Hazardous Materials cui hanno collaborato scienziati inglesi, italiani, svizzeri, statunitensi e di cui abbiamo parlato in un precedente articolo. La revisione ha anche evidenziato un diffuso fenomeno di riciclaggio “illecito”, in cui l’industria utilizza plastica di grado non alimentare, contenente ritardanti di fiamma e altri composti critici, proveniente, con tutta probabilità, da rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Tra le ulteriori criticità viene sottolineata la difficoltà di eliminare in modo efficace eventuali contaminanti chimici dalla plastica riciclata, in ragione delle proprietà chimico fisiche intrinseche di alcuni materiali plastici; particolarmente problematico potrebbe essere infine l’uso di rifiuti di plastica recuperati, ad esempio, dalla pulizia degli oceani, in quanto possono essere presenti inquinanti organici persistenti.
In questo scenario, accanto ad aziende che cercano di incrementare le vendite dei propri prodotti con slogan che sottolineano l’uso di plastica riciclata, altre imprese invece optano per non impiegarla, motivando questa scelta in base a ragioni di sicurezza. È il caso di HIPP, colosso svizzero produttore di alimenti per l’infanzia e di articoli per la cura della persona per neonati, che sul proprio sito web, parlando di packaging sostenibile, evidenzia come “lo stato più recente della tecnologia nella selezione, frantumazione e lavaggio dei rifiuti di plastica non sia in grado di fornire una qualità del materiale sufficientemente elevata”.
E che pertanto l’utilizzo di plastica riciclata negli imballaggi a contatto con gli alimenti per neonati e bambini piccoli non sia un’opzione adeguata.
A conti fatti, secondo una ricerca dell’emittente televisiva Deutsche Welle insieme all’European Data Journalism Network, rilasciata a fine dello scorso anno che ha analizzato gli obiettivi green di alcune grandi società dell’alimentare, su 98 promesse ecologiche mappate, solo 12 sono state effettivamente mantenute. Molte delle aziende coinvolte (un terzo) sostenevano di voler introdurre una quantità consistente di plastica riciclata nei propri prodotti in sostituzione del materiale vergine ma poi non è stato fatto. Siamo proprio certi che questa incertezza nel procedere non sia stata dettata da ragioni legate alla sicurezza? Impossibile dare una risposta certa.
Ma così come è facile per le aziende cadere nel tranello del greenwashing, allo stesso modo vi è il rischio concreto di fare un passo più lungo della gamba, esponendo i consumatori a rischi oggi non noti o non adeguatamente considerati. In attesa di risposte chiare e certe sulla reale qualità della frazione riciclata, sarebbe opportuno allora che una qualche autorità si prendesse la briga di prevedere l’obbligo di indicare in etichetta la presenza di plastica riciclata, consentendo così ad ogni consumatore di valutare se considerare tale informazione come un semplice slogan o come un’avvertenza.
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Temevo qualcosa del genere. Faranno come i PFAS, prima li ingurgitiamo e tra 20 anni ci dicono che sono tossici
ma se le bottiglie, anziché produrle in PET vergine o riciclato, fossero fatte in bioplastica, non sarebbe meglio?
Mi sà dire lei , in concreto, cosa intende per “Bio plastica”. No perchè anche in questo campo c’è una disinformazione elevata…
È vero, ma il riassunto che ci offre anche Wikipedia è accurato:
“La bioplastica è, secondo la definizione data dalla European Bioplastics[1], un tipo di plastica che può essere biodegradabile, a base biologica (bio-based[2]) o possedere entrambe le caratteristiche. Più precisamente:
può derivare (del tutto) da biomassa (per esempio: bio-PE, bio-PP, bio-PET)
può derivare interamente da materie prime rinnovabili ed essere biodegradabile (per esempio: PBAT, PCL, PBS)
può derivare da biomassa e non essere biodegradabile (per esempio: PLA, PHA, PHB, plastiche a base di amido)
Secondo la definizione data da Assobioplastiche[3], per bioplastiche si intendono quei materiali e quei manufatti, siano essi da fonti rinnovabili che di origine fossile, che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili.[4] Assobioplastiche suggerisce quindi di non includere nelle bioplastiche quelle derivanti (parzialmente o interamente) da biomassa, che non siano biodegradabili e compostabili, indicandole piuttosto con il nome “plastiche vegetali”.”
Nell’articolo si parla di plastica riciclata, che ha delle criticità che non ricadono sulle bioplastiche compostabili.
Ciò che mi chiedo io è come facciano, in un impianto, a dividere la plastica ad uso alimentare (bottiglie per bevande in PET per esempio) da quella non alimentare (flaconi in PET usati per detersivi per esempio). Lo fanno ad occhio e manualmente? Di fatto nel sacco della differenziata mettiamo tutto insieme!
Io mi chiedo: le buste di plastica che usiamo nell’organico vengono messe sotto terra con tutta la busta? In tal caso troveremo la plastica anche in frutta e verdura.
Per la raccolta dell’organico NON vanno usati i sacchetti di plastica. A seconda delle indicazioni del Suo comune vanno usati o sacchi in bioplastica compostabile o sacchettini in carta compostabile. Attenzione perchè basta un sacchetto di plastica per compromettere il processo di compostaggio! Inoltre il compostaggio industriale non funziona “sotterrando i rifiuti” ma attraverso un processo che può impiegare anche 90 giorni. Il materiale selezionato viene triturato e miscelato mediante appositi macchinari. Dopo la preparazione, il materiale viene disposto in cumuli su ampie superfici, dotate sul fondo di griglie per il recupero del percolato e di bocche di aerazione. Il percolato che si origina dalle varie fasi di lavorazione viene raccolto e riutilizzato sui cumuli all’inizio del processo, nel caso sia necessario aumentare l’umidità della massa. Durante tutto il processo, bracci meccanici mescolano periodicamente la massa per garantire la giusta ossigenazione. Durante la biossidazione si innescano i processi biologici di decomposizione naturale e il materiale perde acqua e volume. Le alte temperature naturalmente raggiunte nella massa in fermentazione igienizzano completamente il materiale garantendo la scomparsa di patogeni e semi di piante infestanti. Raggiunta la piena maturazione, il compost può essere sottoposto ad un trattamento di raffinazione e vagliatura finale.
Molto bene! Finalamente una spiegazione dettagliata del processo! Purtroppo, e basta vederlo da certi commenti, vi è un’ignoranza totale sugli imballaggi e il loro uso e riciclo…
Verissimo e corretto quello che dice, ma quando butto la sacchetta di carta dell’organico nell’apposito bidone al suo interno l’80/90 % delle buste presenti sono contenute in sacchetti di “plastica” e dubito siano tutti in bioplastica compostabile.
Purtroppo se non ci svegliamo NOI TUTTI utenti di qualunque cosa andremo sempre più indietro anziché avanti…….
nel caso si trovino buste non compostabili occorre segnalarlo all’amministratore o direttamente agli altri condomini. Negli ultimi anni però sono sempre di pi le buste compostabili, ad esempio i sacchetti dei supermercati. Solo raramente capita di trovare esercenti che utilizzano ancora buste in plastica. Anche in questi casi sarebbe il caso di farlo presente.
Ho letto con molto interesse l’articolo che mi ha confermato parte dei timori afferenti il riciclo. Sarebbe interessante fare una discriminazione, se possibile, tra il riciclo meccanico e chimico dato che quest’ultimo dovrebbe esente dai problemi di contaminazione sopra citati.
E’ un argomento attualissimo che impone studi approfonditi che non possono più tardare. Come pure quello dei controlli sulla filiera dei recuperi, che dovrebbe poter essere in grado di selezionare maggiormente la provenienza dei rifiuti plastici. Prima di dare il via a un massiccio uso di plastica riciclata (auspicabile) va impostato tutto il processo di selezione del materiale (e magari anche un efficiente meccanismo di controllo).