Gentile redazione, da tempo quando siamo riuniti per la cena uno degli argomenti di discussione riguarda la cottura della pasta e in particolare degli spaghetti. Il problema si focalizza sul tempo di cottura riportato sulle etichette. Pur variando sovente tipologia e marca (non siamo molto fedeli per cui quando si fa la spesa al supermercato acquistiamo pasta di varie aziende) la questione si pone spesso. Se in cucina si rispettano i tempi riportati sulle etichette, e si scola al momento giusto subito dopo la suoneria del timer, la pasta è ancora cruda. Mia moglie è l’unica soddisfatta perché a lei piace così, ma il resto della famiglia esprime sempre un certo disappunto. Vi chiedo come mai quasi tutte le aziende forniscono indicazioni in etichetta così imprecise. Per raggiungere una cottura corretta, per cui l’animella centrale della pasta vista in sezione risulta di colore omogeneo, bisogna incrementare il tempo di cottura riportato sull’etichetta del 30/50 % e anche più. Giovanni di Napoli
Il tema lo avevamo già affrontato qualche anno fa e dal racconto del lettore la questione è ancora di attualità. Il problema dei tempi di cottura “imprecisi” riguarda numerose marche che verosimilmente riportano sull’etichetta informazioni non sempre corrette. Una volta la qualità degli spaghetti veniva valutata attraverso la tenuta in cottura e la prova non lasciava spazio a dubbi. Oggi le cose sono cambiate, perché tutte le paste superano la prova, tanto che alcune non scuociono anche se restano diversi minuti in più sul fuoco rispetto a quelli indicati sulla confezione.
I motivi derivano dalla variazioni del sistema di essiccazione che adesso viene fatto ad alte temperature. In questo modo si forma uno strato esterno “protettivo” che garantisce una buona tenuta in cottura, anche utilizzando grano di qualità inferiore. L’altro vantaggio è che si riducono i tempi di produzione. Il risultato è che le temperature sono aumentate di molto, tanto che oggi si raggiungono livelli che in passato non si potevano immaginare.
L’altro aspetto da considerare è che la semola presente sul mercato ha in genere una maggiore quantità di proteine, e questo favorisce la tenuta in cottura. La maggior parte dei pastifici miscela grano duro nazionale con quello importato (la provenienza è visibile in etichetta), perché la produzione italiana è largamente insufficiente e non è in grado di coprire il fabbisogno dell’industria. Il grano coltivato in Francia, Canada, Stati Uniti e Australia è più tenace e ricco di proteine e questo permette di ottenere una pasta che tiene meglio la cottura.
Il risultato complessivo è che soventele indicazioni sui minuti di cottura non sono precise. Solo poche aziende riportano due diciture: la prima riguarda i minuti per ottenere spaghetti al dente, la seconda si riferisce a una cottura standard. Nella maggior parte dei casi, però, il tempo è uno solo e spesso la pasta non risulta cotta e per questo rimane l’animella più scura all’interno come giustamente sostiene Giovanni nella lettera.
Per verificare la cottura degli spaghetti infatti esiste un metodo semplice ma sconosciuto ai più. Basta prelevare un filo di pasta dalla pentola, inserirlo tra due vetrini trasparenti e schiacciare. Se nella parte centrale si vede in modo evidente una riga bianca scura (chiamata animella), la pasta non è ancora cotta. Il punto ideale per portare gli spaghetti in tavola si raggiunge quando l’animella centrale tende a scomparire (vedi foto). Chi non dispone dei vetrini può fare una prova più semplice: basta tagliare con un coltello lo spaghetto e verificare a occhio a che punto è la cottura. Raccontateci la vostra storia in cucina.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
già perchè assaggiarla e troppo complicato, ma forse è il modo più semplice e sicuro…..
Forse è anche una mossa di marketing probabilmente. Considerando i tipi di pasta che acquistiamo di buona qualità, che prevedono già 10-12 minuti, sarebbero meno vendibili sugli scaffali se avessero 14-15 minuti o oltre. Non parliamo del riso, che anche quello venduto come “veloce” 8-10 minuti alla fine per essere commestibile va cotto i canonici 18-20 minuti in acqua, di più se si fa il classico risotto con soffritto e brodo. Dopo 10 minuti è immangiabile per chiunque, mi chiedo se i produttori lo abbiano mai assaggiato.
@francesco
“assaggiarla e troppo complicato, ma forse è il modo più semplice e sicuro”
E’ l’unico metodo sensato, e basta farlo la prima volta che si cambia pasta…
Se c’è scritto 10 minuti la assaggi dopo 9, poi la riassaggi prima di scolarla e condirla, se trovi che i minuti “giusti” per il tuo gusto sono 13 lo scrivi col pennarello sulla scatola e sei a posto finché non cambierai di nuovo fornitore o formato.
E ci va meno tempo che scrivere letteracce lamentandosi del produttore che non ha messo il tempo di cottura che vogliamo noi (ma, nel caso in questione, quello della moglie, che la vuole al dente, o quello degli altri familiari che invece voglio attaccarci i manifesti?).
Alcune marche indiano due tempi di cottura, al dente e cotta
“Alcune marche indiano due tempi di cottura, al dente e cotta”
Sforzo lodevole ma doppiamente inutile, perché in nessun caso centreranno esattamente il gusto di ognuno… non è come fornire la misura in mm o il peso in grammi di un bullone.
Quante volte di fronte a pasta per me perfettamente al dente almeno uno dei commensali ha commentato “è ancora cruda!” e immediatamente un altro lo ha zittito esclamando “ma se ci puoi attaccare i manifesti!”?
E purtroppo, ciascuno a proprio gusto, avevamo ragione tutti.