Uno squalo nuota tra i pesci nei pressi di una barriera corallina tropicale

Negli ultimi cinquant’anni, le popolazioni di pesci cartilaginei (o condroitti) quali squali, razze e pesci chimeriformi, si sono dimezzate. Inquinamento, eccesso di pesca (chiamato anche overfishing) volontaria e involontaria, presenza sempre più invadente di pescherecci, contaminazione dei fiumi hanno colpito duramente questi magnifici animali (1.199 le specie note), dai quali dipendono molti degli equilibri dell’ecosistema marino.

Qualche motivo di speranza, comunque, non manca: a partire dagli anni Novanta, alcune iniziative di tutela e ripristino di singole realtà, portate avanti in Paesi e regioni quali quelle di Australia, Canada, Nuova Zelanda, USA, Sud Africa e alcuni Paesi europei hanno dimostrato concretamente che rimediare e ripristinare le popolazioni è possibile: basta volerlo.

Lo studio internazionale

È un ritratto in chiaroscuro, quello ospitato sulle pagine di Science e stilato da un gruppo internazionale alcuni maggiori esperti di conservazione marina del mondo, che hanno ricostruito quanto accaduto nell’ultimo mezzo secolo, grazie alla definizione del Red List Index (RLI), un parametro che mancava, analogo alla lista esistente per gli animali terrestri, che permette di definire il rischio di estinzione delle specie marine. L’index, come le altre liste analoghe, si basa sui dati dell’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) Red List Status, è stato introdotto nel 2021 grazie al lavoro di oltre 330 esperti riuniti in 17 workshop tenutisi nell’arco di otto anni in tutto il mondo, e permette di valutare i dati complessivamente, ma anche per singole specie o paese e in varie aggregazioni utili per queste valutazioni.

Il calo dei pesci cartilaginei

Squalo mako overfishing
Il rischio di estinzione è decisamente più elevato nei Paesi che fanno meno attenzione all’overfishing

Nello specifico, applicando l’index ai dati degli ultimi cinquant’anni, si è visto appunto che per gli squali, le razze e simili le popolazioni sono dimezzate, dopo una pausa degli anni Ottanta dovuta all’esaurimento delle popolazioni. Dagli anni Novanta a oggi, però, la pesca è ripresa e, insieme agli altri fattori negativi, ha fatto sì che il rischio di estinzione aumentasse del 19%, arrivando a interessare, dopo le zone degli estuari dei fiumi e quelle costiere, via via sempre di più le acque al largo, e quelle profonde. Di conseguenza, la scomparsa delle funzioni ecologiche degli squali e simili (cioè di quanto accade in altre specie grazie alla loro presenza) è cresciuta del 22%.

Overfishing ed estinzione

Il declino di questi pesci, causato anche dal dissennato bisogno, gonfiato dal marketing, di oli di pesce e acidi grassi omega tre e omega sei, e dal commercio illegale soprattutto in Asia, ha pesanti conseguenze per esempio sui coralli, perché senza il loro movimento la quantità di ossigeno e nutrienti che arriva sulle barriere è nettamente inferiore. Lo stesso vale per i sedimenti, che diventano più stabili e privi di ricambio di ossigeno, immagazzinando il carbone in modo meno efficiente ed essendo in generale molto meno vitali. Non stupisce, poi, che il rischio di estinzione sia decisamente più elevato nei Paesi che fanno meno attenzione all’overfishing, che hanno popolazioni costiere (umane) più grandi e che non regolano in modo severo le specie pescate.

Le esperienze positive

A partire dagli anni Novanta, comunque, le iniziative volte a proteggere questi animali hanno iniziato a diffondersi un po’ in tutto il mondo. Si sono introdotti limiti alla pesca, divieti di consumo, aree protette e tutto ciò ha causato, almeno nelle zone interessate e per alcune specie, un’inversione di tendenza. Laddove si sono varati interventi significativi, le popolazioni hanno iniziato a riprendersi e laddove i controlli e le restrizioni sono state considerate permanenti, si è giunti a una certa stabilità. Quando ciò non è accaduto, il peggioramento è stato continuo, ed è attivo e visibile ancora oggi.

In definitiva, secondo gli autori la relazione esistente tra rischio di estinzione e norme meno stringenti dimostra che l’index dovrebbe essere adottato in tutto il mondo e utilizzato come riferimento proprio nelle zone a rischio più elevato, per dare vita a politiche di conservazione che possano ripristinare i pesci cartilaginei e rispondere adeguatamente all’obiettivo 14,4 dell’agenda della sostenibilità 2030 delle Nazioni Unite e a quello 5 del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, sempre dell’ONU.

© Riproduzione riservata. Foto: Depositphotos.com

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