Olio di palma, i produttori influenzano le informazioni sugli effetti per salute e ambiente. Il logo RSPO resta sconosciuto per i consumatori
Olio di palma, i produttori influenzano le informazioni sugli effetti per salute e ambiente. Il logo RSPO resta sconosciuto per i consumatori
Agnese Codignola 4 Febbraio 2019“La predominanza nei cibi industriali rende quello di palma l’olio vegetale più prodotto al mondo. (…) Questa analisi illustra i molti parallelismi delle strategie commerciali del settore con contestate pratiche messe in atto dall’industria del tabacco e da quella dell’alcol”. Non potrebbe essere più chiara di così, la conclusione dell’analisi pubblicata sul Bollettino dell’Oms dagli esperti della London School of of Hygiene and Tropical Medicine e dell’Università di Exeter, condotta con il patrocinio dell’Unicef e dedicata a quella che si potrebbe chiamare Big Palm, sulla scorta di Big Tobacco e Big Soda. Infatti, anche le aziende dell’olio di palma, che si muovono in un mercato da 60 miliardi di dollari all’anno, negli ultimi decenni hanno fatto di tutto per sviare l’attenzione dai danni sulla salute umana e soprattutto da quelli ambientali. E nel farlo, sono state facilitate più di altre dal fatto che, in questo caso, gli studi finora effettuati sono stati pochi, non di rado poco chiari, tanto nelle conclusioni scientifiche quanto nei finanziamenti a monte, così come dalla regolamentazione del settore, più lacunosa e disomogenea rispetto a quella di ambiti alimentari contigui.
Oggi, soltanto in Malesia e Indonesia, le piantagioni di palme da olio coprono un’area grande quanto la Nuova Zelanda, e la domanda è stimata in aumento via via che un numero crescente di Paesi metterà al bando gli acidi grassi trans, sostituiti di solito proprio dall’olio di palma, più solido a temperatura ambiente rispetto ad altri oli vegetali, e quindi perfetto per innumerevoli preparazioni di cibo industriale.
A maggior ragione, è molto importante essere consapevoli di ciò che succede dietro le quinte e, anche senza alimentare teorie complottistiche, tenere presente il rischio di possibili manipolazioni nei messaggi che arrivano all’opinione pubblica e le spregiudicate tattiche messe in campo dalle aziende. Lo si vede, del resto, nelle ambiguità della letteratura analizzata, che riguardano vari aspetti della filiera: tra gli studi ve ne sono anche salcuni assai controversi, come i nove che hanno avuto un esito positivo, quattro dei quali, si è scoperto poi, finanziati dalle aziende del settore.
Quanto a quelli che mettono sul banco degli imputati l’olio di palma, vale la pena di segnalare, oltre a quelli sui danni sulla salute di chi lo assume in maniera cronica attraverso il cibo industriale, alcuni studi che dimostrano effetti molto nocivi anche sulla salute delle popolazioni dei Paesi produttori. La pratica di tagliare e bruciare le palme rilascia nell’atmosfera rilevanti concentrazioni di inquinanti di vario tipo, che aumentano molto il rischio di malattie respiratorie, cardiovascolari e tumorali.
Inoltre, c’è una grossa lacuna per quanto riguarda la riconoscibilità del prodotto da parte del consumatore, visto che l’olio di palma,è spesso impossibile da identificare essendo indicato in etichetta con diversi nomi (olio vegetale, grasso vegetale, palmisti, olio di palmisti, olio di palma, palmato, palmitato, palmoleina, glicerile, stearato, acido stearico, elaeis guineensis, acido palmitico, palma stearina, palmitoil oxostearamide, palmitoil tetrapeptide-3, sodio lauretolfato, sodio lauril solfato, nocciolo di sodio, nocciolo di palma di sodio, lauril lattilattilato / solfato di sodio, gliceridi palmari, etil palmitato, ottil palmitato, palmitilico).
Come se ne esce? Lo studio inglese indica alcune direzioni fondamentali verso le quali andare:
- Dimostrare meglio e con studi inattaccabili gli effetti sulla salute umana, soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto effetto cocktail, cioè il fatto che singoli componenti possono non essere dannosi, ma lo diventano se assunti insieme ad altri, magari per tempi lunghi e quotidianamente;
- Aumentare le regole imposte alle aziende che producono olio di palma e cibi industriali e verificare le loro relazioni con i decisori, al fine di attenuare l’influenza delle prime sulle politiche specifiche di salute pubblica;
- Imporre controlli e regole severe per gli aspetti sociali legati alla produzione quali l’impiego di minorenni nelle piantagioni e così via, al fine di far crescere le filiere sostenibili a scapito di quelle devastanti.
A quest’ultimo aspetto fa riferimento anche un altro studio uscito pochi giorni prima su Environmental Research Letters, nel quale i ricercatori dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna, hanno dimostrato la scarsa consapevolezza dei consumatori e l’altrettanto scarsa efficacia della conoscenza della filiera.
Nello studio è stato chiesto a oltre 1.600 inglesi sia quanto sapessero sui possibili danni associati all’olio di palma (soprattutto ambientali), sia se conoscessero o meno il marchio RSPO del consorzio per la produzione sostenibile (Roundtable on Sustainable Palm Oil), così come altre diciture. Il risultato è stato chiaro: il 77% degli intervistati sa che l’olio di palma non è immune da problemi, e il 41% di questi sa che è disastroso per l’ambiente. Ma quasi nessuno (circa il 5%) conosce il marchio RSPO e ancora di meno (l’1% del 5%) decide di acquistare un certo prodotto perché contrassegnato così. Se si verificano marchi più noti come Fairtrade, si vede che la consapevolezza è maggiore (lo conosce l’82% dei consumatori), ma le conseguenze sono comunque insoddisfacenti: solo il 29% di chi sa che cosa significa Fairtrade sceglie i prodotti certificati.
“Tutto questo dimostra che basarsi solo sulle diciture in etichetta, soprattutto qualora esse non siano sufficientemente conosciute e chiare, non basta” hanno commentato gli autori, aggiungendo che purtroppo neppure la consapevolezza ha un’influenza significativa sugli acquisti. È quindi necessario muoversi in altre direzioni, anche perché – questa l’opinione dei ricercatori inglesi – pensare che l’olio di palma sparisca dai cibi industriali è irrealistico e arrecherebbe danni incalcolabili alla vita dei milioni di persone che vivono grazie a questa industria.
Piuttosto, bisogna fare di tutto per orientare la produzione verso filiere sostenibili, chiedendo alle aziende alimentari di dire da dove proviene ogni grammo di olio di palma impiegato e, se possibile, obbligandole ad acquistare solo prodotti certificati, anche in ottemperanza a leggi specifiche emanate dagli stati che, a loro volta, devono fare la loro parte per cambiare le cose.
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Giornalista scientifica
La conoscenza e la cultura sono delle cenerentole impotenti, se non abbinate alla potenza dei mezzi finanziari e mediatici, come avviene nelle maxi produzioni d’ogni tipologia.
Dalle coltivazioni intensive ed estensive, alla produzione invasiva di polimeri plastici indistruttibili, all’estrazione di fonti fossili, fino all’invasione del cibo spazzatura a buon mercato, il problema è sempre lo stesso:
la ricerca scientifica applicata alla tecnologia senza etica, saggezza e lungimiranza produce solo sfaceli, altro che sfamare il mondo, come i fedeli oltranzisti della nuova fede scientifica sostengono.
Finché il modello di sviluppo è dettato ed imposto solamente dal business del libero mercato mondiale incontrollato, queste sono le ingestibili conseguenze.
L’olio di palma è una schifezza, anche se è vegetale contiene grassi saturi in quantità e insaturi (mono e poli) in quantità minori di altri oli (girasole, oliva etc).
quindi anche se lo facciamo diventare “sostenibile” per l’ecosistema non lo sarà mai per la nostra salute.
Piantiamola di usarlo, ne abbiamo fatto a meno per secoli senza subire danni perché adesso dobbiamo ritrovarcelo ovunque e avere associazioni che lo sostengono?
Fortuna che iniziano a vedersi molte aziende che segnalano l’assenza dell’olio di palma nei loro prodotti.
(speriamo che nel frattempo non venga di moda qualche altra porcheria).
Illusione: si sta già usando l’olio di cocco che non è molto meglio in fatto di grassi saturi.
L’olio di cocco si usa ancora in pochi gelati e per alcuni biscotti farciti
Scommettiamo Roberto?
Se si riduce il consumo dell’olio di palma aumenta quello dell’olio di cocco…
(ah, grazie per i temi che tratti !)
sostenibile o non sostenibile … l’olio di palma fa male alla salute ed è riconoscibile al palato .. prodotti molto meno leggeri e friabili con un retrogusto amarognolo …. NO ASSOLUTAMENTE ALL’OLIO DI PALMA IN PRODOTTI DA MANGIARE
Sempre più velocemente stiamo uccidendo il nostro pianeta e noi stessi per l’unico Dio reale che esiste al mondo. Il Denaro !!! E’ solo questione di tempo…….. ( sempre meno ).