Neanche le montagne più alte si salvano dall’inquinamento da microplastiche. E l’Himalaya non fa eccezione. Ormai ubiquitarie sulla Terra, la scoperta della presenza di queste microparticelle (cioè frammenti di plastica dal diametro inferiore ai 5 millimetri) anche sul tetto del mondo, di cui dà conto un articolo appena pubblicato su One Earth, è stata fatta dai membri di una spedizione condotta nella primavera del 2019. I ricercatori dell’Università di Plymouth, nel Regno Unito, hanno infatti effettuato una serie di campionamenti della neve e delle acque presenti dal Campo Base fino a pochi metri dalla cima, nel cosiddetto Balcone, e hanno riportato poi quanto raccolto in laboratorio, per effettuare tutte le indagini del caso.
Gli oltre 20 campioni esaminati dai ricercatori hanno mostrato una realtà sconcertante: ognuno di essi, nessuno escluso, ne conteneva in quantità variabili comprese tra 3 e 119 microplastiche per litro (in media 30), delle più varie composizioni, ma soprattutto a base di poliestere (il più abbondante, presente nel 56% dei campioni), polimeri acrilici (31%), nylon (9%), e polipropilene (5%). La maggior parte delle microplastiche erano fibre, lunghe tra i 36 e i 3.800 micrometri e con un diametro compreso tra i 18 e i 2.000 micrometri. Questo è stato molto importante per ipotizzare la loro provenienza.
È infatti probabile che derivino, non tanto da oggetti come borracce o involucri di cibo che le spedizioni teoricamente sono tenute a non abbandonare, ma dai materiali altamente tecnologici di cui gli scalatori e le guide ormai sono dotati, e che si ritrovano nell’abbigliamento, nelle tende e nelle attrezzature per la salita come le corde e gli zaini. Ovunque prevalgono i materiali a base di plastica che, però, perdono fibre anche quando sono nuovi e poi in quantità sempre maggiori, a mano a mano che si usurano. Gli altri residui probabilmente sono portati dalle correnti d’aria e depositati su queste come su altre montagne del pianeta.
Per questo secondo i ricercatori britannici, piuttosto che cercare il modo per ripulire le nevi e le acque himalayane, impresa ardua, è fondamentale cambiare approccio e sostenere la ricerca di nuovi materiali meno inquinanti: quelli che contengono ancora plastica dovrebbero essere riprogettati in modo che rilascino molte meno fibre nell’ambiente e, auspicabilmente, se ne dovrebbero trovare altri con le stesse caratteristiche in termini di performance, ma privi di plastica.
Nel caso dell’Himalaya, l’inquinamento del Campo Base, di altri campi e vie aveva raggiunto livelli insostenibili, e quantità enormi di bombole di ossigeno, bottiglie di plastica, mozziconi di sigaretta, scarti di alimenti e quant’altro avevano riempito aree molto vaste tra i percorsi più battuti dagli escursionisti, guide e alpinisti. Per questo il Governo locale ha vietato la plastica monouso e ha lanciato una grande campagna di raccolta nella primavera-estate del 2020, impiegando direttamente l’esercito e approfittando dell’assenza forzata delle spedizioni dovuta alla pandemia. Sono stati raccolti oltre 10 mila kg di rifiuti, molti dei quali contenenti plastica, ed è stata introdotta una sorta di caparra di 4 mila dollari a persona, che le autorità locali restituiscono solo quando, al rientro, l’alpinista dimostra di aver portato indietro i rifiuti.
Ma è evidente come queste misure non bastino per le microplastiche, che oltretutto sono quasi impossibili da rimuovere una volta disperse. Se si vuole iniziare a cambiare è indispensabile ripensare tutta l’organizzazione delle spedizioni – concludono gli autori – visto che sempre più persone ogni anno raggiungono vette un tempo riservate solo a pochissimi scalatori molto esperti.
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Giornalista scientifica