L’industria alimentare, settore strategico per l’economia italiana, oggi si pone l’obiettivo di unire innovazione tecnologica e tradizione gastronomica nazionale. Tradizione che passa anche attraverso il recupero e la valorizzazione di coltivazioni locali, fino a ieri confinate in contesti produttivi di nicchia ma che cominciano a offrire opportunità interessanti per produttori, trasformatori e consumatori. Questo è ciò che sta accadendo in Sicilia, dove si assiste al ritorno della coltivazione di antichi grani locali, di cui l’isola è particolarmente ricca. La diversità di climi e suoli dell’isola ha favorito nel tempo la selezione di molti ecotipi, intorno ai quali sono maturati saperi e conoscenze centenarie.
Nella corsa al perfezionamento produttivo e alla standardizzazione del primo-dopoguerra, tali frumenti furono gradualmente abbandonati e sostituiti con altri dalle rese maggiori e che meglio si prestavano alla “moderna” tecnologia alimentare. Oggi Timilia, Russello, Perciasacchi, Maiorca, Margherito, Biancolilla sono solo alcuni delle oltre cinquanta varietà siciliane che trovano un posto di riguardo nel panorama cerealicolo, con ricadute positive che spaziano dal recupero della biodiversità dei sistemi agricoli, alla tutela della ricchezza culturale del territorio, ai benefici per la salute.
Numerosi studi sembrano dimostrare che i grani antichi abbiano una maggiore digeribilità del glutine che, nonostante sia presente in quantità superiori rispetto alle varietà moderne, mostra un minore contenuto in sequenze amminoacidiche responsabili della gluten sensitivity. Questi grani tipici della tradizione siciliana restituiscono alla pasta, prodotto “Made in Italy” per eccellenza, un’identità meridionale, recuperando i fili di una storia tutta isolana che risale a Ruggero II, quando, un secolo prima del viaggio di Marco Polo in Cina, un geografo arabo scrisse per la prima volta di “… un cibo di farina in forma di fili”, preparato nei dintorni di Trabia.
La rivalutazione di questi frumenti antichi presenta un ventaglio di ricadute economiche e produttive per l’intera filiera. La loro coltivazione è ideale in sistemi di coltivazione biologica: essendosi evolute in Sicilia, queste varietà si adattano all’ambiente di coltivazione e richiedono meno input energetici (ad esempio i fertilizzanti), consentono inoltre di diversificare le produzioni agricole, ampliando la gamma di prodotti trasformati e rappresentando così un volano per piccole economie locali e una fonte di reddito in grado di migliorare le condizioni socio-economiche dei contesti rurali. La strada dei grani antichi e della loro filiera è però tutta in salita e c’è ancora tanto da fare per difendere dalle furberie questo patrimonio e tutelare gli attori della filiera da grani che poco o nulla hanno a che fare con quelli antichi. “… Fondamentale è promuovere l’iscrizione al Registro delle Varietà da Conservazione, cioè un elenco nazionale delle varietà o ecotipi di specie agrarie, autoctone o no, perfettamente integratesi in specifici sistemi agricoli locali e regionali, minacciate da erosione genetica e di interesse economico, scientifico, culturale o paesaggistico (Legge 46/2007).
L’iscrizione avviene secondo l’iter previsto dal D. Lgs 149/2009, richiede una descrizione della varietà locale secondo regole internazionali (linee guida dell’Unione internazionale per la protezione delle novità vegetali (UPOV), elencate nell’allegato II della direttiva 2003/90/CE), che consentono a una specifica commissione tecnico-scientifica di valutare l’effettiva distinguibilità della varietà da altre della stessa specie. Purtroppo, dopo un avvio incoraggiante, che ha visto nel 2014 la registrazione di 3 grani antichi siciliani (Maiorca, Timilia e Perciasacchi), la commissione esaminatrice è entrata in stand by, con conseguente rallentamento anche della certificazione delle sementi, che fugherebbero ogni dubbio al consumatore sulla varietà utilizzata, garantendone la tracciabilità.”
Valeria Urso
Tecnico laboratorio di caratterizzazione granelle e sfarinati, Molini Riggi M. & A. Fratelli, Caltanissetta
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Molto interessante, grazie. Dovremmo spendere di più e meglio in alimentazione e meno in smartphone.
Buonasera, potreste gentilmente indicare le fonti dei “numerosi studi” di cui parlate? Grazie.
Valeria Urso
Tecnico laboratorio di caratterizzazione granelle e sfarinati, Molini Riggi M. & A. Fratelli, Caltanissetta
Ringrazio il Direttore per avere permesso questo articolo che è quello che sostengo da tempo: i grani antichi hanno una importanza nel combattere alcuni problemi che danno i grani moderni.
Io uso il Khorasan (una leggera modifica rappresentata dalla marca e trade mark Kamut) ma il concetto cui sono affezionato sono i grani antichi perché mi sembra che nei grani la seleziona genetica moderna abbia prodotto danni alla salute rappresentati da una non chiara ma allarmante estrema diffusione della celiachia in varie forme. Per porre rimedio a questo problema non vedo altra soluzione che scegliere grani antichi in cui le truffe sono arginate come prospettato dall’articolista.
E meno male che almeno qui , ma è rara e nobile eccezione in un web traboccante scemenze passate per vere solo perchè infarcite delle magiche parole “antiStato, antiCasta, antiMutinazionali, Anti “Loro”- CHI ? “quelli del gombloddo!! Ah, beh!), nessuno elucubra la possibilità di fornire cibo sano anche ai celiaci col “grano antico”!
Perchè anche il più antico degli antichi, il Farro MONOCOCCO, il primo ad essere traghettato dallo stato di selvatico a coltivato agli albori della Agricoltura nel 9000 a.C nella Mezzaluna fertile appena uscita dall’ultima glaciazione di Wurm, è pur sempre un Triticum e come tale anche lui ha GUTINE = TOSSICO per i celiaci. MA SOLO PER LORO che non arrivano ufficialmente a 200 000, secondo le stime più negative a 600 000, quindi al massimo l’1% della popolazione italiana, non certo quel 30% e oltre a cui punta un’industria che sfrutta l’ignoranza e il sentito dire da micuggino che il glutine ” fa male e fa pure ingrassare ” per invadere pubblicità e scaffali della GDO per quintuplicare i guadagni di prodotti molto più elaborati e ad alto indice glicemico demonizzando la pasta di spiccata semplicità e genuinità , basso indice glicemico, passaporto del più sano ed economico Made in Italy, baluardo dellla difesa del territorio meridionale italiano.
Non c’è nessuna evidenza scientifica che i grani “antichi” , direi vecchi, forse è più corretto, siano più sani e digeribili dei moderni, anche perchè quello più abusato, il Cappelli, registrato nel 1915 da Strampelli è frutto delle geniali intuizioni del nostro più grande scienziato agronomo che però introdusse con ripetuti incroci DNA di grani di tutto il mondo alla faccia del km 0 e del “naturale” . E se poi da Nazione che soffriva cronicamente la fame siamo diventati esportatori e cittadini che godono di benessere materiale e intellettuale lo dobbiamo anche a grandi innovazioni come Cappelli e suoi “figli” che usiamo ancora oggi che producono 40-60 q/ha contro al massimo dei 10 di prima grazie all’abbassamento della taglia, alla resistenza al freddo invernale, alla siccità primaverile-estiva, alle malattie fungine e a micotossine derivate che hanno flagellato l’umanità nei secoli scorsi, al miglior sfruttamento della fertilità ecc ecc che nessuna moda vintage può e deve nascondere e confondere. La Scienza galileiana sdoganata dall’Illuminismo laico è la chiave di svolta dello sviluppo dell’umanità negli ultimi 2 secoli ed il suo diffuso benessere anche alle classi non nobili nè clericali. Continuare a cercare ombre e fanatismi di stampo religioso o rovistare nel superstizioso sono il tragico pericolo per i prossimi anni.
Potrebbe gentilmente spiegare a che età risalgono questi grani antichi e soprattutto citare qualcuno dei numerosi studi di cui parla?
Salve a tutti e grazie per l’attenzione posta a questo articolo. La necessità di dare quante più informazioni in poche righe, comprensibili anche ai non addetti ai lavori, purtroppo, non permette di approfondire tutti i punti trattati (come, invece, si può fare in un articolo scientifico o, almeno, scientifico-divulgativo!).
Spero, anche questa volta in poche righe, di rispondere a tutti e chiarire eventuali dubbi!
Fino agli inizi del ‘900 non si possedevano molte informazioni sui grani antichi. Un primo censimento si deve a Patanè e Stringher (1884), ma il contributo più importate è quello di Ugo De Cillis, che nel 1945 cataloga circa agro-ecotipi diffusi sul territorio siciliano.
Trattandosi di ecotipi (e non varietà selezionate) è difficile indicare una data di nascita precisa per i frumenti antichi. Un’indicazione la potete trovare nell’articolo:
De Vita P., Nicosia O. L. D., Nigro F., Platani C., Riefolo C., Di Fonzo N., Cattivelli L. (2007). Breeding progress in morpho-physiological, agronomical and qualitative traits of durum wheat cultivars released in Italy during the 20th century. European Journal of Agronomy, 26(1), 39-53.
Nello stesso articolo sono spiegati i cambiamenti relativi al contenuto in proteine (glutine compreso) e qualità tecnologica (forza del glutine) relativi alle antiche popolazioni e le nuove varietà.
Invece, negli articoli di seguito riportati troverete informazioni rispettivamente sulla maggiore adattabilità dei grani antichi ai sistemi low input o biologici e la complessità sensoriale e aromatica dei frumenti antichi rispetto ai moderni (che spiegano perchè sono apprezzati da tanti!):
– Ruisi P., Frangipane B., Amato G., Badagliacca G., Di Miceli G., Plaia A., Giambalvo D. (2015). Weed seedbank size and composition in a long‐term tillage and crop sequence experiment. Weed Research, 55(3), 320-328. (reperibile anche in italiano, come atto di convegno SIA)
– Alfonzo A., Urso V., Corona O., Francesca N., Amato G., Settanni L., Di Miceli G. (2016). Development of a method for the direct fermentation of semolina by selected sourdough lactic acid bacteria. International Journal of Food Microbiology.
…………
…Per quanto riguarda l’aspetto relativo alla digeribilità del glutine dovrei dilungarmi parecchio perchè l’argomento è vasto e contrastante! Ci tengo a spiegare (cosa che non mi è stata possibile approfondire nell’articolo e la frase “numerosi studi” può essere fuorviante!) che ad oggi non ci sono prove univoche e schiaccianti che il glutine dei grani antichi sia più digeribile rispetto a quello presente nelle varietà moderne. Ad oggi è possibile provare solo che la differenza nella forza del glutine (indicata come indice di glutine o Gluten Index): i frumenti antichi hanno più glutine (> % di glutine) e più debole (< Gluten Index), mentre la varietà moderne hanno meno glutine (GI). Sono in corso diverse ricerche che mirano a provare che l’elevata tenacità del glutine nella varietà moderne sia sinonimo di difficile digeribilità di questo da parte di soggetti intolleranti (non parlo di celiachia: per i celiaci non esiste frumento
che possa essere ingerito! Si tratta di una malattia autoimmune in soggetti geneticamente predisposti…non si sviluppa mangiano glutine!).
Ad oggi, alcuni studi riportano che i grani antichi contengono minore contenuto in sequenze amminoacidiche responsabili della gluten sensitivity.
Vi riporto di seguito il link di un interessante articolo scientifico-divulgativo, dove potete ritrovare i QRcode che riportano agli articoli di interesse e approfontimento (per la celiachia e gluten sensitivity visionate i QR8 e QR9):
– Pizzuti D., Buda,A., d’Odorico,A., d’Incà R., Chiarelli S., Curioni A., Martines D. (2006). Lack of intestinal mucosal toxicity of Triticum monococcum in celiac disease patients. Scandinavian journal of gastroenterology, 41(11), 1305-1311.
– Van den Broeck H. C. et al. (2010). Presence of celiac disease epitopes in modern and old hexaploid wheat varieties: wheat breeding may have contributed to increased prevalence of celiac disease. Theoretical and Applied Genetics, 121(8), 1527-1539.
il link:
http://mensileagrisicilia.it/immagini/graniantichi.pdf
Non capisco: questo articolo molto equilibrato e di cui lei mette il link, scritto da ricercatori esperti e non da pokemon in fuga sul web, evidenzia come sui grani antichi ci sia soprattutto molto fumo e poco arrosto. Se poi il fumo troverà consumatori disposti a pagare 5 volte di più saremo tutti più contenti, soprattutto per i vessati operatori agricoli sopravvissuti. Ma che lo stesso fumo non inquini quel che c’è di buono nel TANTO ARROSTO che abbiamo creato nei secoli di benessere illuministico laico occidentale come, tra l’altro, i grani moderni.
P.S: io vado al lavoro in bici, è la scelta migliore in città come sanno i Paesi più civili del nostro, ma non mi fustigo alla madonna dei 7 dolori e uso una bici in alluminio e con un buon cambio.
Leggendo gli abstract:
– i grani antichi sono grani del secolo scorso, “..introduced in Italy between 1900 and 1990”. Confesso un po’ di delusione, mi sarei aspettato una storia millenaria, invece mi pare l’aggettivo “antico” sia stato utilizzato in maniera impropria e piuttosto propagandistica. Peraltro il termine “antico” non compare mai nell’abstract.
– negli altri due articoli invece non mi pare leggere nulla a proposito della maggiore digeribilità rispetto alle varietà moderne (quali poi? Sia più precisa cortesemente…).
La cosa che mi lascia più perplesso è l’evidente assenza di una correlazione diretta ed univoca tra l’antichità (presunta) e la maggiore qualità del prodotto. Alcuni di quei grani infatti li ho provati direttamente e li ho trovati certamente molto buoni, ma non più di alcune varietà “moderne”, come ad esempio il Cappelli.
L’impressione è che con il marketing si promuovono prodotti più costosi (e ottimi!) facendo leva su alcuni aspetti di sicuro fascino ma di poca sostanza.
Vincenzo, come ho scritto nella mia risposta, è difficile datare i grani antichi. Mentre per le varietà selezionate per miglioramento genetico abbiamo un ano di costituzione, per gli ecotipi non è possibile essere così precisi! Queste popolazioni locali si sono evolute nel tempo, selezionate per l’azione dell’ambiente e/o per azione dell’uomo, prima ancora dell’avvento delle leggi dell’ereditarietà di Mendel!
Le date indicate in alcune pubblicazioni sono spesso indicative e basate sulle informazioni raccolte attraverso censimenti o documenti conservati in strutture specifiche (v.d. banca del germoplasma del Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia).
Per quanto riguarda la maggiore digeribilità, ho spiegato che gli studi sono in corso e il dibattito è ancora aperto…C’è chi sostiene la maggiore digeribilità del glutine dei grani antichi, chi ipotizza che le intolleranze siano dovute ad altri costituenti del frumento (FODMAP), altri ancora riconducono la maggiore incidenza dell’intolleranza al glutine alla maggiore possibilità di diagnosi rispetto al passato…ma i dati ad oggi pubblicati non sono sufficienti ad avvalorare le diverse ipotesi.
Per quanto riguarda la qualità…è un concetto molto ampio! La qualità di un frumento può essere letta in termini commerciali, tecnologici, molitori, sensoriali, bio-culturali, etc. Quello sta ai singoli, in base alle proprie esigenze, definirli! Io mi sono limitata a sostenere la maggiore complessità sotto il profilo organolettico e sensoriale dei grani antichi rispetto ai moderni, ma i palati dei consumatori sono diversi e spetta a loro giudicare!
Valeria, grazie per la risposta che in un certo senso conferma quello che le dicevo.
Non vi è nessuna prova di antichità (semmai fosse un pregio), maggiore digeribilità o altro. Si tratta dell’ennesima operazione di marketing.
Mi dispiace solo constatare come, ancora una volta, per valorizzare alcuni prodotti di eccellenza (secondo il mio modesto palato) bisogna raccontare favole ai consumatori.
I contadini, non a caso “cervello fino”, lavorano duramente e producono alimenti con il sudore della fronte. Se devono scegliere se lavorare per un prodotto che rende X e uno che rende 2X o più, secondo voi quale producono ?
I tipi di grano (e qualunque altro prodotto “biodiversificato ” oggi scomparso) che sono stati abbandonati a favore di ceppi più banali e redditizi sono scomparsi perché per produrli si spendeva piu’ (in denaro e fatica) di quanto rendessero, specie nel confronto con altri tipi.
Ma se oggi un quintale di grano costa meno di 20 euro (sic) ma per meccanismi di marketing al limite della subornazione di incapace, un “grano antico” puo’ essere venduto a prezzo triplo, vedrete che a breve la produzione di “grano antico” aumenterà a dismisura
Si possono anche fare delle produzioni di pasta di grano antico proponendo al consumatore un prezzo superiore
Appunto. Gia’ il pane costa non poco, non parliamo poi della pasta “di qualità”. Se poi il marketing scopre il “plus” del grano antico possono pure raddoppiarne il prezzo (al cliente finale, ovvio) 🙂
C’è un motivo molto semplice per cui i vecchi ecotipi dei grani e le specie antiche (farri e spelta) preorritrici preistoriche dei “moderni” grani duro e tenero hanno più glutine: producono MENO! E produono soprattutto meno carboidrati e quindi nel granello il rapporto percentuale fra amidi e proteine (di cui una parte sono quelle glutiniche) si sposta a favore di quest’ultime. In assoluto c’è meno amido, non più proteina…
Alcuni degli autori che ha citato non a caso svolgono proficua attività di miglioramento genetico in importanti istituzioni pubbliche di ricerca e hanno rilasciato varietà di successo. E il successo vuol dire adattabilità , produttività e qualità . E un indice di glutine elevato così come come la forza W alveografica è parametro UNI normato che indica buona qualità della pasta, laddove la rete glutinica serrerà i granelli di amido ed eviterà oltre alla sgradevole sensazione di scotto anche la loro prematura fuorisuscita e quindi una migliore digeribilità. E’ QUESTO CHE DA SECOLI CERCA L’INDUSTRIA DELLA PASTA (per assecondare i gusti del consumatore) prima rivolgendosi al prodotto estero, ma oggi DISPONIBILE NEI GRANI DELLA NOSTRA MERAVIGLIOSA ITALIA. Pretendiamo che il Made in Italy lo sia anche nella materia prima, caso mai, prima di screditare il milione e mezzo di ettari di grano duro e i seicentomila di tenero.
Con un vergognoso 19 cent/kg pagato ai durogranicoltori, ben venga una maggiore e più giusta retribuzione del lavoro dei campi e la valorizzazione della territorialità, ma rimanendo con i piedi per terra, coscienti e trasparenti SENZA INSERIRSI NEL FILONE PERFIDO della demonizzazione paranoica e smaccatamente commerciale di attaccare il più forte per togliere “clienti”, in questo caso prodotti sanissimi come la pasta, consumata con benefici salutistici inequivocabili, in primis il basso indice glicemico, da oltre 1 miliardo di persone nel mondo, in continua crescita con ricadute altamente positive sull’economia del Made in Italy.
Crescita che dopo anni di grandi successi internazionali quest’anno si è arrestata forse anche a causa o almeno concausa di questa campagna strisciante di un web che lancia slogan orecchiabili senza dibattito scientifico contro una generica casta che induce addirittura a non vaccinare i propri figli, figuriamoci se non a prestar credito che il glutine sia il subdolo veleno delle multinazionali messo lì per intossicare il povero utente buono e sprovveduto che dovrà rifugiarsi nei prodotti Gluten-FREE ecco li lì belli e pronti (e quanti sono !) nello scaffale che chissà perchè la GDO ha messo vicino al biologico, mah!
Sgombrato il campo dalla mistificazione più grossolana e pericolosa, ma anche più diffusa del web (celiachia migliorabile con comportamenti vintage) la “gluten sensitivity” o meglio NCGS (sensibilità al glutine non celiaca) è argomento assolutamente non definito in ambito scientifico internazionale (il glutine non sembrerebbe l’unico agente causale ma entrerebbero in gioco altre proteine del grano e alcuni oligo-mono-disaccaridi fermentabili presenti non solo nel grano , ma anche nei prodotti caseari, legumi, asparagi, finocchi, peperoni, funghi, verdure cotte a foglia larga, miele, cioccolato- Gibson et al 2012, Biesiekierski et al. 2011) Da studi recenti inoltre emerge che ad incidere in maniera importante sullo sviluppo dei sintomi sembrano essere anche i conservanti e gli addittivi alimentari com glutammato, benzoato, solfiti, nitrati e i coloranti.
Capitolo a parte, ma di analoga pericolosa e sfruttabile indeterminatezza, e come tale fonte di fantasie del web, sfruttate da laboratori diagnostici a dir poco “faciloni” è LA CERTEZZA DELLA DIAGNOSI DI NCGS o GLUTEN SENSITIVITY, a meno di un challenge con il glutine in doppio cieco con placebo. Dal 15° simposio internazionale sulla celiachia (Chicago , 2013) è emerso che NON ESISTONO MARKER DIAGNOSTICI che consentano di identificare con certezza questa condizione, che preoccupa più per le crescenti AUTODIAGNOSI e relative conseguenze di cattiva alimentazione in larga fetta della popolazione giovane adulta occidentale affetta soprattutto da insicurezze e paure esistenziali che nessun FREE-FROM potrà risolvere veramente.
Ci può dire qualcosa in più di questa “commissione”?
È lecito pensare che sia stata frenata?
A leggere la foga e il sarcasmo di certi commenti contro i nostri grani autoctoni e liberi, temo di sì.
ciao,
potrai avere il tempo di leggerti anche queste 41 pagine di relazione:
http://www.ilbiricoccolo.it/wp-content/uploads/2014/05/Relazione-Finale-Progetto-OIGA_Prof.-Dinelli1.pdf
cv del Prof che ha presieduto lo sudio durato 3 anni (che non è proprio l’ultimo arrivato):
https://www.unibo.it/sitoweb/giovanni.dinelli/cv
se non basta altri studi dell’università di Firenze
http://www.ilbiricoccolo.it/wp-content/uploads/2014/05/Stefano-Benedettelli-SLIDES-Univ-Firenze.pdf
e visto che saprai sicuramente l’inglese articolo su PLOS one:
http://www.ilbiricoccolo.it/wp-content/uploads/2014/05/Abstract-PLOS-ONE1.pdf
poi per gli aspetti agronomici ne parliamo visto che coltivo solo grani antichi per scelta. Buona serata
Grazie Elena, contattami per favore, mi trovi su internet come acquamossa
Ciao,
conosco bene il Prof. Benedettelli, mio docente di genetica a Firenze, e il Prof. Dinelli, del quale ho letto molti articoli sull’argomento durante la mia attività di ricerca presso l’Università di Palermo.
Ho già spiegato che l’articolo è uno spunto sull’argomento e che, non essendo un articolo scientifico e non potendo dilungarsi troppo, non è sufficiente ad affrontare e approfondire tutti gli aspetti che riguardano i grani antichi.
L’articolo consigliato nel link, inoltre, non è una prova di “come sui grani antichi ci sia soprattutto molto fumo e poco arrosto”, ma, per la sua facile comprensione, anche per i non esperti sull’argomento, è utile per spiegare che esiste molta disinformazione riguardo a quello che arriva sulle nostre tavole e per comprendere che i grani antichi devono essere apprezzati per i reali vantaggi che offrono a tutti gli attori della filiera e non per i falsi e pericolosi miti che spesso li circondano!
Grazie Elena.
L’argomento dei grani antichi interessa molto la nostra associazione sportiva che nel sue manifestazioni cerca di valorizzare i cibi e le colture locali. Contattami per favore, mi trovi su internet come acquamossa
Concordo certamente Valeria. Il mio messaggio era per Fabrizio, spero si sia capito 😉
Unica cosa, dai vari studi in essere mi risulta che la percentuale di glutine nei grani di vecchia costituzione sia molto inferiore in percentuale rispetto ai “nanizzati” fratellini del Creso. Dove hai trovato l’informazione che sono più ricchi di glutine?
per essere esatti: la percentuale di glutine è superiore (i frumenti antichi contengono più proteine (come effetto di una minore resa!) e, visto che l’80% di queste costituiscono il glutine, hanno anche più glutine!). Quello che, invece, è più basso è l’Indice di glutine, che indica la forza del glutine…in parole povere: i frumenti antichi hanno più glutine, ma è meno forte (basso indice di glutine).
Purtroppo, molti confondono il concetto di indice di glutine con la quantità di glutine, ma si tratta di due parametri diversi! Se leggi più attentamente le fonti scientifiche troverai conferma di quello che scrivo! Inoltre, io ne ho la riprova quotidiana nel mio laboratorio, dove analizzo quotidianamente sfarinati di varietà moderne e molti frumenti antichi!
Buongiorno, parlando di grani antichi che poi sono quelli coltivati da sempre fino a al 1950/60 almeno in Sicilia e per il Russello in particolare visto che io sono del Ragusano, la verità oggettiva è che le caratteristiche di questo grano sono tali da renderlo migliore rispetto a quelli odierni per specifici distretti rurali e per coltivazioni BIO, e vi spiego perché.
Sempre parlando di Russello ma il discorso vale anche per altri grani cosidetti antichi, anche se non è molto produttivo con una resa di 20 q per ettaro, circa il 50% meno delle cultivar più moderne, è resistente alla ruggine del grano, al mal del piede (Ophiobolus graminis) ed al carbone (Ustilago tritici), richiede poco concime azotato e non favorisce a causa della semina tardiva e della sua notevole altezza tra 150 e 170 cm, provocando una radiazione solare più bassa sul suolo, lo sviluppo delle erbe infestanti, di conseguenza non servono erbicidi tipo il famoso Roundup di Monsanto, quindi è Ecosostenibile.
La raccolta meccanizzata presenta problemi per l’altezza del fusto, ma visto la sua notevole resistenza come detto sopra viene coltivato in montagna e comunque in terreni accidentati vedi monti Iblei dove in ogni caso i mezzi agricoli non potrebbero comunque essere utilizzati, inoltre la produzione della paglia supera del 50% quella del seme, con conseguente utilizzo alternativo dal recupero degli scarti della produzione.
In sintesi visto che in Italia non abbiamo le sconfinate praterie nord americane o russe, non è ragionevole affidarsi ai grani geneticamente modificati per agricoltura estensiva massiva che prevede grandi capitali per la meccanizzazione non facilmente recuperabili da piccoli agricoltori residenti in zone appenniniche e collinari, dove tra l’altro il grano moderno soffrirebbe per le non ideali condizioni climatiche necessitando di continui e costosi trattamenti.
Quindi aldilà di ogni convinzione personale, per centrare il problema su cosa sia meglio, antico o moderno, io penso che obbiettivamente bisogna spostare l’accento sulla localizzazione geografica delle coltivazioni, quindi su cosa sia meglio per un determinato territorio, valutando l’orografia ed il microclima locale che influiscono sull’economicità e sostenibilità di una varietà rispetto ad altre.