Fave, cabosse e polvere di cacao con su un tavolo di legno

Una lettrice ci ha segnalato una scritta ‘bizzarra’ presente su un pacco di biscotti: “cacao di origine europea”. Abbiamo contattato l’azienda e chiesto anche un parere a Roberto Pinton, consulente aziendale.

La lettera sul ‘cacao europeo’

Buongiorno, sulla confezione di questi buoni biscotti “Fattincasa con riso e cacao” dell’azienda DiLeo, c’è scritto “cacao di origine europea”. Interessante, ma dove è possibile coltivare cacao in Europa? Allego immagine dell’incarto e rimango in attesa di un Vs. riscontro. Morena.

La risposta dell’azienda DiLeo.

Al fine di comprendere l’indicazione presente in etichetta “cacao di origine europea” si rimanda al Regolamento UE 952/2013, art. 60 punto 2, nel quale il Paese d’ origine viene così determinato: “Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.”
Per cui tale Regolamento consentirebbe di indicare che il cacao sia di origine europea laddove l’ ultimo processo di lavorazione delle fave di cacao avvenga in stabilimenti siti nel territorio europeo.
Inoltre, si precisa che poiché sulla confezione viene vantata l’origine italiana dei principali ingredienti (grano, riso, latte, uova, zucchero), per il cacao, che è un ingrediente caratterizzante – quindi che viene menzionato nella denominazione del prodotto ed è rappresentato attraverso simboli sul front dell’etichetta – , è stata specificata la provenienza come da Reg. CE 775/2018 e da Reg. CE 1169/2011 art. 26 in modo da garantire una comunicazione corretta e trasparente al consumatore finale.

Il parere di Roberto Pinton

Il richiamo fatto dall’azienda al regolamento UE n. 952/2013 è formalmente corretto. Per l’attuale ordinamento, l’origine è la nazionalità “economica” delle merci in commercio: un bene si considera originario nel Paese in cui è avvenuta l’ultima lavorazione o trasformazione sostanziale, che abbia come risultato un prodotto con composizione e proprietà specifiche che non possedeva prima della lavorazione (tecnicamente, cambia la voce del codice di nomenclatura doganale di classificazione del bene).

Il Paese di origine di una banana che al più venga conservata in frigorifero o maturata (deverdizzata) rimane l’Ecuador in cui è stata coltivata, ma se lavoro questa banana a Göteborg per ottenere una purea, anche se può sembrare singolare, l’origine diventa Svezia.
È questo l’approccio che fa sì che un abito di chiffon di seta (ottenuta da bachi allevati in Cina e colà filata), ma cucito da un’industria italiana sia del tutto legittimamente considerato di origine italiana, così come è considerato di origine italiana un paio di stivali tagliato e cucito da un calzaturificio italiano soltanto con cuoio conciato in Pakistan.

Fave di cacao e cioccolato fondente su un tavolo di legno

La normativa sul cacao

Lasciando gli stivali e tornando al cacao, la direttiva 2000/36/CE lo definisce come “il prodotto ottenuto dalla trasformazione in polvere dei semi di cacao puliti, decorticati e torrefatti” che presenti determinate caratteristiche di composizione. Quindi, anche se la pianta di cacao da cui derivano le fave è coltivata  in Costa d’Avorio, dal punto di vista doganale (e legale), il cacao successivamente ottenuto in Olanda polverizzando queste fave è considerato come originario dell’Olanda, quindi europeo. E dobbiamo ammettere che, anche se sappiamo benissimo che il clima europeo non consente (ancora…) la coltivazione delle piante tropicali, non aggrottiamo le sopracciglia quando vediamo “cacao olandese”, “cioccolato svizzero” , “cioccolato belga” o “caffè italiano”.

La normativa di origine per gli altri prodotti

Che non sempre la lavorazione sostanziale sia però sufficiente a “nazionalizzare” una materia prima e che il Paese di coltivazione abbia il suo peso è evidente dalla legislazione che riguarda alcuni prodotti. La normativa europea, per esempio, richiede che sull’ortofrutta, sia sfusa che confezionata, sia indicato il Paese di coltivazione, cui è possibile aggiungere la zona di produzione regionale o locale.
Per la carne bovina sia fresca che surgelata dal 1° gennaio 2002 in tutta la Unione europea l’etichettatura deve indicare il paese di nascita, ingrasso e macellazione dell’animale; dal 1° aprile 2015 l’obbligo è stato esteso alle carni fresche, refrigerate o congelate di suini, ovini, caprini e di volatili.

Per pesce, crostacei e molluschi va indicato termini “…pescato…” o “…pescato in acque dolci…” o “…allevato…”, con il dettaglio della zona di pesca FAO in cui il prodotto è stato catturato o del fiume o lago di cattura.
Obbligo d’indicazione dell’origine anche per il miele, con il nome del Paese in cui il miele è stato raccolto oppure «miscela di mieli originari della CE», «miscela di mieli non originari della CE», «miscela di mieli originari e non originari della CE».
Per i prodotti biologici è stabilito sin dal 2010 che per l’origine si debba fare riferimento al luogo in cui sono state coltivate le materie prime agricole, che va obbligatoriamente indicato in etichetta con la modalità «Agricoltura Italia», «Agricoltura UE», «Agricoltura non UE», «Agricoltura UE/non UE», a seconda.

Cosa dicono i decreti nazionali

Abbiamo anche una serie di decreti nazionali che, “considerata la necessità di fornire ai consumatori un quadro informativo più completo sugli alimenti” prevedono l’obbligo di indicare distintamente:
–    l’origine del latte e dei prodotti lattiero-caseari («Paese di mungitura: XXX», «Paese di condizionamento o di trasformazione: XXX» o «origine del latte: XXX» quando sia stato munto, condizionato o trasformato, nello stesso Paese);
–    l’origine del riso («Paese di coltivazione del riso: XXX», «Paese di lavorazione: XXX»,  «Paese di confezionamento: XXX» o «origine del riso: XXX» quando il riso sia stato coltivato, lavorato e confezionato nello stesso Paese);
–    l’origine del grano duro per le paste di semola («Paese di coltivazione del grano: XXX», «Paese di molitura: XXX»)
–    l’origine del pomodoro in passate, pelati, sughi, salse e altri derivati («Paese di coltivazione del pomodoro: XXX», «Paese di trasformazione del pomodoro: XXX» o «Origine del pomodoro XXX» se il pomodoro è stato coltivato e trasformato  interamente  in  un  unico Paese).

Pasta spaghetti
In Italia c’è l’obbligo di indicare l’origine del grano duro per le paste di semola

Il regolamento sull’origine dell’ingrediente primario

Abbiamo, infine, il regolamento UE n.775/2018, che quando diciture, illustrazioni, simboli eccetera apposte sul prodotto possano indurre il consumatore a ritenere che anche gli ingredienti primari abbiano il medesimo Paese d’origine o luogo di provenienza, si debba precisare se sono diversi.
Scrive la Commissione nella sua comunicazione 2020/C 32/01 che anche “«prodotto di (Paese)» in genere fa pensare al consumatore che si tratti di un’indicazione dell’origine ( …). Inoltre è anche probabile che l’espressione «prodotto di» suggerisca al consumatore che l’intero prodotto alimentare, compresi i suoi ingredienti, proviene dal Paese indicato sull’etichetta”.
Anche l’uso di un monumento nazionale, di un paesaggio riconoscibile, di una persona (per non dire dei colori di una bandiera o di cartine geografiche) costituiscono riferimenti che inducono a ritenere che anche gli ingredienti provengano dalla zona richiamata; qualora così non fosse, va precisato.

Ma anche il regolamento UE n.778/2018 deve tener conto della norma generale che distingue tra Paese di coltivazione o cattura (che, come visto, va indicato su una serie limitata di alimenti) e Paese d’origine (quello in cui è stata effettuata l’ultima trasformazione sostanziale) e dispone che l’indicazione sia dell’uno oppure dell’altro.

È corretta la dicitura ‘cacao europeo’?

Premesso che vedo soltanto il fronte della confezione, se altrove è indicato “cacao UE” o “cacao Olanda” o “il cacao non proviene dall’Italia” (le diciture tassative da utilizzare, “cacao europeo” da sola non basta), considerato quanto sin qui detto, ritengo che l’etichetta si possa ritenere conforme alla lettera della normativa.

Detto questo, la considero tecnicamente sbagliata e poco in linea con lo “spirito” della norma, che è “fornire al consumatore finale le basi per effettuare scelte consapevoli”.
Non ha alcun senso sottolineare l’origine europea di un ingrediente che il consumatore pacificamente già identifica come coltivato in aree tropicali.
Qualche consumatore acquisterà più volentieri attratto dal claim sull’origine europea del cacao però coltivato in un indeterminato Paese tropicale?
Al consumatore, eventualmente, interessano altre caratteristiche. Per esempio la provenienza da una filiera equo solidale che s’impegni a garantire condizioni di vita sostenibili ai produttori e a conservare la biodiversità, oppure l’area di coltivazione (Costa d’Avorio, Ghana, Camerun, Brasile, Ecuador?) o la varietà  (Criollo, Forastero, Trinitario?), che non a caso i produttori di cioccolato di fascia alta evidenziano in etichetta.
Non se ne fa niente della vaghissima informazione che le fave di cacao sono state macinate in un luogo imprecisato di un continente che si estende per 10 milioni  di kmq (45 volte la superficie dell’Italia) che va dal Mar glaciale Artico al Mediterraneo, dall’Oceano Atlantico agli Urali.
Non c’è nemmeno qualche elemento distintivo: tutte le aziende europee utilizzano cacao “di origine europea” (cioè trasformato in polvere in Europa), nessuna ricorre a cacao già macinato nel Paese di produzione.

Roberto Pinton

In passato avevamo rilevato un’etichetta di NaturaSì con un’indicazione molto simile, ma la risposta dell’azienda in quel caso era stata diversa. Qui l’articolo completo.

© Riproduzione riservata. Foto: DiLeo

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Andrea B.
Andrea B.
8 Febbraio 2023 09:24

Condivido a pieno la risposta del Dr. Pinton. Indicazione fuori luogo e ambigua che non aggiunge nessuna informazione utile al consumatore ma genera ulteriore confusione. Potrebbe avere un vantaggio competitivo sul consumatore ateo del settore, che non sa da dove arriva il cacao o si immagina qualche particolare varietà di pianta coltivata in UE. Quindi genera vantaggio competitivo sul mercato a fronte di chi correttamente riporta origine “non UE” della materia prima. Aggiungo che l’interpretazione corretta cui dovremo dare al Reg. UE n.778/2018 è si sapere che il Paese che determina l’ultima trasformazione sostanziale della materia prima ne detta anche l’origine (cambio del codice doganale è la discriminante), ma sopratutto l’azienda di trasformazione dovrebbe chiedersi COSA E’ IMPORTANTE PER IL CONSUMATORE ai fini della conoscenza del luogo di origine? Ecco quindi che per un ingrediente caratterizzante come il cacao, è ovvio che interessi di più il paese di coltivazione e non quello di trasformazione, oppure per un prodotto da forno sapere l’origine della farina (es. CANADA) e non quello di molitura (es. ITALIA) per trarre delle conclusioni ad es. su metodi di coltivazione (OGM, antiparassitari, ecc..ecc…).

Giuseppe
Giuseppe
25 Febbraio 2023 14:18

Ci lamentiamo delle leggi italiane alquanto confusionarie ma anche l’Europa non scherza! Per coprire interessi di bottega e di lobby il povero consumatore dovrebbe districarsi tra regolamenti e cavilli: quanto più semplice sarebbe ” origine X confezionato in Y”! Ovvio che, almeno noi italiani, non compreremmo mai pomodori “origine Cina confezionati in Italia” (tanto per fare un esempio). Va da se che si difende il mercato e non il consumatore.

antonella antonella
antonella antonella
27 Febbraio 2023 10:13

Per me tutto bene