Secondo il rapporto della FAO “Stato della pesca e dell’acquacoltura mondiali”, per la prima volta nel 2022 la pesca di cattura è stata superata dal settore dell’acquacoltura la cui produzione ha raggiunto il volume storico di 130,9 milioni di tonnellate di cui 94,4 milioni di tonnellate di animali acquatici *. Queste cifre sono però destinate a salire: la stessa FAO prevede che entro il 2032 la produzione di animali acquatici dovrebbe crescere del 10% fino a raggiungere un volume di 205 milioni di tonnellate.
Cos’è l’acquacoltura?
Per acquacoltura si intende la produzione di organismi acquatici, principalmente pesci, crostacei e molluschi, in ambienti confinati, controllati e detenuti dall’uomo. In base alla gestione e alla densità di allevamento, l’acquacoltura si divide in estensiva, intensiva e iperintensiva.
Se nel primo caso l’allevamento avviene di solito in ambienti abbastanza vasti all’interno dei quali i pesci si alimentano con prodotti della catena alimentare naturali e l’intervento dell’uomo è limitato all’inserimento di esemplari giovani e al controllo del flusso di acqua, nel secondo caso la densità d’allevamento e la quantità di alimenti necessitano un continuo rinnovo dell’acqua in modo tale da evitare la sedimentazione di solidi. Per quanto riguarda il sistema iperintensivo, invece, la produttività dei bacini è incrementata oltre le naturali possibilità attraverso la somministrazione di alimenti naturali e mangimi formulati.
I rischi e le contraddizioni dell’acquacoltura
Uno dei principali motori dell’acquacoltura è la domanda globale di pesce che è passata da 14,3 kg pro capite negli anni ’90 a 20,2 kg pro capite nel 2020 con un consumo europeo pari a 23,3 kg pro capite. Eppure questo tipo di allevamento non è privo di impatti negativi sull’ambiente, anzi. Uno dei principali rischi riguarda l’eutrofizzazione marina, cioè quel processo causato dall’arricchimento in nutrienti, soprattutto azoto e fosforo, che determina un incremento della popolazione algale con conseguente alterazione degli organismi acquatici e una diminuzione della qualità delle acque.
Le emissioni di composti azotati sono correlate alla gestione del mangime che porta con sé un ulteriore paradosso, poiché spesso composto da derivati del pesce selvatico. Secondo la FAO, infatti, nel 2020 18,1 milioni di tonnellate di pesce selvatico – circa il 20% del totale mondiale – sono stati destinati a usi non alimentari, ma utilizzati per produrre farina e olio di pesce che in gran parte diventano mangime usato nell’acquacoltura.
Il caso del Mediterraneo
Come descritto dal progetto One Earth, anche i Paesi del Mediterraneo stanno investendo nello sviluppo dell’acquacoltura come soluzione alla pesca eccessiva, ma la maggior parte degli allevamenti produce specie ittiche carnivore come il salmone, il branzino e l’orata con conseguente rischio di pesare sulle risorse marine selvatiche. Nel Mediterraneo – soprattutto in Turchia, Grecia, Spagna e Italia –, il 53% degli allevamenti marini coltivano orate e branzini. Attualmente è la Turchia a detenere il primato di maggior produttore di pesce d’allevamento passando da una produzione di 61.000 tonnellate nel 2002 a 514.000 nel 2022.
Gran parte della farina di pesce necessaria per il mangime proviene dal Marocco che è il principale esportatore in Europa e nei Paesi del Mediterraneo. Come sottolineato però da One Earth questo settore incide gravemente sulla piccola pesca: laddove la pesca eccessiva risponde alla domanda di mercato, quella cosiddetta artigianale esercitata entro le 12 miglia dalla costa rischia di trovare un mare senza più pesci.
Il caso Italia
Nel 2023, il settore dell’acquacoltura italiana ha superato 304 milioni di giro d’affari producendo 54.400 tonnellate di pesci di venti specie diverse. Il primato spetta all’allevamento della trota che con 30.150 tonnellate ha raggiunto un valore di 117.900.000 euro, seguita dall’orata e dal branzino con 17.050 tonnellate.
Sull’impatto ambientale della produzione di orate e branzini in Italia si è concentrato uno studio pubblicato su ScienceDirect. Gli studiosi hanno eseguito l’indagine in un impianto off shore nel Mar Tirreno costituito da gabbie galleggianti situate a 4 miglia nautiche dalla costa. Oltre ai rischi ambientali già citati come l’eutrofizzazione, è stata rilevata anche la possibilità di trasmissione di malattie, di dispersione di specie non autoctone e il rilascio nell’acqua di prodotti farmaceutici e antibiotici, le sostanze chimiche più utilizzate in acquacoltura per uccidere o inibire la crescita dei patogeni. Lo studio mette in luce anche l’inquinamento dovuto alle reti, in particolare quelle di nylon.
Se le gabbie galleggianti di solito durano una decina di anni, le reti devono essere cambiate più spesso. La loro incrostazione rappresenta un problema serio poiché riduce gli scambi d’acqua, abbassa il livello di ossigeno disciolto e può trasformare la rete in un serbatoio per parassiti e possibili agenti patogeni aumentando l’incidenza di malattie. Inoltre si rileva il consumo di grandi quantità di gasolio necessario per le operazioni di gestione dell’allevamento. Tralasciando la sofferenza animale, possiamo dunque concludere che, come tutti gli altri tipi di allevamento, anche l’acquacoltura porta con sé numerose problematiche di ordine ambientale e definirla la soluzione alla pesca eccessiva denota una certa cecità verso dei paradossi che mantengono inalterata la modalità di produzione.
* Il resto sono alghe (https://unric.org/it/rapporto-fao-la-produzione-mondiale-ittica-raggiunge-un-nuovo-record/).
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Permesso che si tratta di una forma di allevamento intensivo e in quanto tale fonte di problemi si larga scala. Esiste il problema del granchio blu. Perché, invece di smaltirlo come rifiuto non viene uato per fare mangimi o pet food?
Il granchio blu è squisito ma ha poca ciccia e difficile da estrarre. E’ molto più conveniente usarlo per farci il sugo per gli spaghetti…a 18 euro a porzione…
L’acquacoltura sta crescendo anche a causa dei sussidi dati dai Governi e giustificati dalla FAO, che la considera una pratica sostenibile.
Al di la dell’inquinamento prodotto un lato pericoloso consiste nel fatto che vengono sovvenzionati soprattutto allevamenti di specie carnivore come salmoni, tonni, gamberi, orate, spigole.
Alimentati soprattutto con pesci selvatici, il problema è un indice di conversione alto.
Si va dai 3 kg di pescato per 1 kg di prodotto allevato dichiarati dall’industria delle spigole, ai 15/25 kg di selvatici per 1 kg di tonno allevato……non so se siano cifre completamente attendibili ma quel che è certo che il bilancio è decisamente negativo.
L’itticoltura non serve quindi a ridurre l’overfishing, anzi, amplifica il saccheggio degli stock ittici.
Ma non è l’unica cosa stonata nella pesca………
Articolo molto interessante,è possibile conoscere quali altri tipi di pesce si coltivano in acquacoltura? Grazie , siete i migliori !
L’elenco è molto lungo e comprende quasi tutte le specie compreso alcune specie di tonni. Orate, branzini, ombrine, rombo, gamberi, trote, salmone, astici, pangasio, anguille, carpe….