Bio Bank, Bag with fresh vegetables

agricoltura bio biologico campi coltivareMentre è in discussione in Parlamento la prima legge quadro italiana sul biologico, si scatenano le polemiche tra sostenitori dell’agricoltura bio e critici. Una vera e propria “battaglia del biologico”, raccontata da Corrado Giannone in un articolo pubblicato originariamente da Ristorando.

Va detto che il settore bio, pur in un momento di stagnazione dei consumi, segna una crescita rispetto all’anno precedente, con un picco del +17,2% del valore per il comparto ortofrutticolo e del +23,8% per le bevande. Un aumento dovuto a mio avviso anche ai CAM che impongono una quota di prodotti bio nei menu delle mense pubbliche. Ma vediamo come si è sviluppato il dibattito tra sostenitori e detrattori. La prima a dare fuoco alle micce è stata la senatrice a vita e scienziata di fama mondiale Elena Cattaneo, da sempre critica verso il metodo di produzione biologico, che in un intervento sul settimanale D de La Repubblica affermava lo scorso luglio che fra gli equivoci su cui si regge il racconto del prodotto “naturale=buono” c’è il concetto stesso di biologico, che nulla ha a che fare con la qualità in sé dei prodotti (proposta come superiore) o del presunto maggiore valore nutritivo. E lancia l’accusa: “Di sicuro, il biologico fa bene a chi lo produce, meno alle tasche di chi lo acquista e, a voler allargare lo sguardo, alla popolazione mondiale”.

Un’affermazione che spiega segnalando come chi produca bio sia in costante balia di rese più basse e imprevedibili, ma possa contare sulla certezza di sussidi pubblici che assicurano una rendita, minimizzando i rischi. Da qui la denuncia: “Può anche non esserci raccolto (procedimento costoso) ma ci sarà una rendita (sussidi). Anche un pascolo incolto, dichiarato ‘biologico’, riceverà sussidi. Così i terreni ‘a biologico’ aumentano ma non la produzione”. A novembre è intervenuto sull’argomento il giornalista Michele Serra, chiamando in causa la scienziata e sostenendo, in polemica con lei, che l’autorevolezza non dovrebbe poggiare sull’arroganza e chiedendosi se, quando Elena Cattaneo attacca ripetutamente l’agricoltura biologica, oltre a farsi inevitabilmente dei nemici tra le molte migliaia di coltivatori che hanno scelto il bio non per convenienza, ma per rispetto dei suoli, rende un buon servizio alla scienza o rischia di configurarla come un ipse dixit dogmatico? E concludeva invitando la scienziata ad essere più umile e disponibile all’ascolto.

La risposta della senatrice non si è fatta attendere, ribadendo che l’ascolto è per lei una pratica costante e rivolta non solo agli agricoltori, ma anche ad allevatori costretti a importare ogni anno migliaia di tonnellate di mais e soia Ogm, di cui una legge ipocrita vieta la coltivazione ma non l’importazione, e di cui la nostra filiera agroalimentare non può fare a meno, pena la paralisi. “Ascolto inoltre”, ha affermato la scienziata, “gli studiosi dei nostri centri, le cui ricerche su biotecnologie vegetali sarebbero in grado di ridurre o eliminare la necessità di cospargere i campi di pesticidi (biologici o di sintesi) e preservare la biodiversità, se solo fossero ascoltati. E ascolto poi gli imprenditori che vorrebbero puntare sull’efficienza della produzione agricola integrata”. Non poteva certo finire qui, e infatti Michele Serra interveniva nuovamente per mettere in risalto gli aspetti ambientali del problema, l’impoverimento dei suoli dovuto alle monoculture e la perdita irrimediabile di biodiversità.

agricoltura biologica
La senatrice a vita Elena Cattaneo ha preso posizione più volte contro il biologico

Ma Elena Cattaneo non abbandona la scena, e precisa che prima dell’alternativa “biologico sì o no”, è l’inquinamento della conoscenza che deve preoccupare. La realtà scientifica – scrive – va offerta ai cittadini spogliata di bufale e suggestioni pericolose come quella che racconta che gli Ogm fanno male alla salute e all’ambiente, o che il biologico farà vivere di più e più in salute mentre, senza alcuna miglior qualità verificabile dei suoi prodotti, è venduto a ignari cittadini a prezzi maggiorati.

A cornice di questo vivace scambio di idee c’è il disegno di legge n. 998 “Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico” attualmente in discussione in Senato.

Si sono schierati a favore del disegno di legge diverse associazioni di settore quali FederBio, Cia (Confederazione italiana agricoltori) e Coldiretti. Nel contempo, si è schierato contro un folto gruppo di tecnici, professori universitari e alcune associazioni che, con distinti documenti, hanno criticato fortemente il contenuto della norma. Il primo documento è del 19 dicembre, pochi giorni dopo l’approvazione del disegno alla Camera, sottoscritto da un gruppo di 66 fra docenti universitari, ricercatori e imprenditori agricoli. Una prima forte critica al disegno riguarda la mancata distinzione (che avviene anche a livello di regolamento europeo) tra agricoltura biologica e biodinamica. Un altro tema sollevato riguarda la questione agro-ecologica, per cui non ci si può accontentare di una “sostenibilità locale”: occorre dedicarsi alla “sostenibilità globale” di un modello produttivo agricolo. Nella discussione parlamentare, infatti, non sarebbe stata fatta alcuna concreta analisi economica.

Ad oggi, si dice nel documento, in Italia vengono coltivati 13 milioni di ettari di superficie agricola utile (circa il 45% della superficie totale del nostro Paese), che però sono in grado di produrre solo il 70% di quanto effettivamente viene consumato. Il resto viene importato. Si spendono così 1,7 miliardi di euro in grano tenero e grano duro, mentre si arriva a 2 miliardi di euro in mangimi (buona parte Ogm) per gli allevamenti. Secondo i firmatari del documento, diversi studi mostrano che la resa dell’agricoltura biologica è in media nettamente inferiore (tra il 20 e il 70% a seconda della coltura) rispetto all’agricoltura convenzionale. Se l’Italia dunque decidesse di puntare sull’agricoltura biologica, la sovranità alimentare si allontanerebbe ancora di più e aumenterebbe al contempo la spesa dell’import.

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I critici dell’agricoltura biologica ricordano che questo sistema ha una resa dal 20% al 70% inferiore rispetto a quella convenzionale e integrata

Un altro punto che il documento mira a smontare è il “copione imposto dal marketing”, secondo cui i prodotti bio sono prodotti “puliti”: “chi coltiva biologico usa ‘pesticidi’, più o meno tossici a seconda del bersaglio” si legge. 

Il 9 gennaio, un gruppo di 213 esperti ha firmato un’altra lettera indirizzata ai membri del Senato, che contiene un giudizio sul disegno di legge ancora più duro. Ne viene quindi chiesto il ritiro e la ripresentazione “solo dopo una profonda modifica nell’impianto e dei contenuti”. Il documento riporta dieci fatti “poco conosciuti, conflittuali e negativi del biologico”: oltre alla scarsa produttività, ne viene messa in discussione la sostenibilità ecologica, sia su scala globale che locale, e la sostenibilità sul piano economico-sociale, affermando che un’adozione generalizzata del biologico porterebbe ad un aumento dei prezzi di prodotti, come frutta e verdura, indispensabili per la prevenzione di molte malattie. Viene sottolineato che il biologico fa uso di fitofarmaci e riceve già sussidi non inferiori a quelli dell’agricoltura convenzionale.

Il disegno di legge violerebbe dunque alcuni principi fondamentali, tra cui quello della libera concorrenza fra imprenditori agricoli. La libera concorrenza prevede infatti che gli incentivi offerti ai diversi processi produttivi (biologico, convenzionale, integrato di base e integrato avanzato) non siano tali da produrre distorsioni dei mercati. Non si capisce dunque perché il disegno di legge in questione preveda incentivi per il biologico e non ne preveda per l’integrato di base e avanzato. L’agricoltura biologica infine, sostiene il documento, rifiuta in modo preconcetto l’innovazione nel campo della genetica e delle tecniche colturali fondate sulle recenti acquisizioni scientifiche, quando il mancato accesso alle tecnologie porta già oggi i produttori a non riuscire a rispondere alla concorrenza dei produttori esteri.

Il terzo documento, anche questo del 9 gennaio, è firmato da Aissa (Associazione delle Società Scientifiche Agrarie), Fisv (Federazione italiana scienze della vita) e Anbi (Associazione nazionale dei biotecnologi italiani). In esso si critica in particolare l’articolo 11, affermando che con quest’articolo il disegno di legge prevede la possibilità di attivare corsi di laurea, dottorati di ricerca, master e corsi di formazione in tema di produzione biologica e prevede finanziamenti pubblici specifici per la ricerca in ambito di produzione biologica. I sottoscrittori del documento fanno notare che decretare per legge che parte dei fondi del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) e del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agrari) siano obbligatoriamente dedicati all’agricoltura biologica, significa condizionare fortemente la ricerca scientifica. Il 15 gennaio FederBio ha replicato che le accuse mosse dagli esperti riporterebbero tesi vecchie e già smentite. 

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Alcuni docenti e scienziati si sono schierati a favore del biologico

Il dibattito tra pro e contro il biologico si arricchisce poi di un altro capitolo quando il “Corriera della sera” del 9 febbraio pubblica un articolo dal titolo “Gli scienziati in difesa del bio basta battaglie ideologiche tutela i terreni e l’ambiente”. Si tratta di una lettera aperta sottoscritta da un gruppo di 53 docenti per la libertà della scienza, che ribadiscono la validità del metodo biologico di produrre. Tra i firmatari Claudia Sorlini, già preside della Facoltà di Agraria della Statale di Milano. Quest’ultima afferma che si scontrano due visioni diverse: una, quella convenzionale, assegna all’agricoltura solo il compito di produrre cibo e ha come compito l’aumento della produzione; l’altra guarda a come unire produzione, ambiente e risorse naturali preservando la fertilità dei suoli e dando valore al lavoro dell’agricoltura. 

È ora interessante capire come la parte politica si inserisce in questo dibattito. “Il Parlamento sta lavorando da tre legislature a questi temi“, spiega la deputata Chiara Gadda, capogruppo Pd in commissione Agricoltura alla Camera e prima firmataria della legge. “Io l’ho ripresentata con delle modifiche, come l’aggiunta del logo nazionale, e l’obiettivo è mettere a sistema le richieste degli operatori emerse in un lungo ciclo di audizioni”. Sostiene poi che le produzioni con metodo biologico in Italia già oggi rappresentano il 15%, e che grazie alla nuova legge si pongono le basi per un piano strategico nazionale che rilancerà la competitività del comparto.

Afferma poi di rispettare le posizioni di uomini di scienza, ma altrettanto devono essere rispettate le decisioni degli operatori della filiera che scelgono il biologico. Il confronto tra prodotti ottenuti con il metodo di produzione biologica e con metodo tradizionale, ha poi detto l’on. Gadda, non può basarsi solo sul valore nutrizionale, che è praticamente uguale, ma vanno presi in considerazione altri fattori, quali la salvaguardia dell’ambiente e la presenza di residui di agrofarmaci negli alimenti. 

Young man and his son on organic strawberry farm
Le analisi dell’Ispra hanno trovato pesticidi usati in agricoltura in due terzi delle acque superficiali e in un terzo di quelle sotterranee

L’argomento è delicato. La norma prevede che questi ultimi debbano essere assenti nei prodotti biologici, mentre per gli alimenti ottenuti con metodi convenzionali la legge ne ammette la presenza entro certi limiti, come da Regolamento UE 2017/978 (in continuo aggiornamento).  I pesticidi usati in agricoltura vanno ad inquinare le acque, come dimostrato dal rapporto che ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) pubblica ogni anno. Nel biennio 2015-2016 sono stati analizzati 35.353 campioni ed effettuate 1.966.912 analisi. Il monitoraggio evidenzia una presenza diffusa di pesticidi nelle acque, con un aumento delle sostanze trovate e delle aree interessate. Nel 2016, in particolare, sono stati rilevati pesticidi nel 67,0% dei punti delle acque superficiali e nel 33,5% di quelle sotterranee. Sempre più evidente è la presenza di miscele, con un numero medio di circa 5 sostanze e un massimo di 55 in un singolo campione. 

Lo stesso discorso vale per i farmaci veterinari. Nel caso degli allevamenti biologici ne sono ammessi pochissimi mentre negli allevamenti convenzionali ne sono ammessi un numero molto maggiore. Per quanto concerne i residui, poi, questi devono essere assenti negli alimenti ottenuti con il metodo biologico, mentre negli alimenti ottenuti con il metodo convenzionale ne sono ammessi alcuni, entro certi limiti. Il problema dei residui negli alimenti, pone molti rischi derivati dall’interazione contemporanea tra più pesticidi. 

Per quanto riguarda le produzioni biologiche, occorre precisare che alcune pratiche attuali sono da rivedere, così come il sistema dei controlli, che oggi sono affidati a enti pagati dai controllati. Sicuramente non è pensabile che l’agricoltura biologica da sola possa assicurare il fabbisogno di tutti, ma può convivere con l’agricoltura convenzionale. Saranno i consumatori a scegliere fra un prodotto e l’altro, fermo restando che la ricerca in agricoltura deve proseguire senza limiti dettati dall’ideologia, come oggi avviene per quanto riguarda gli Ogm. Nel momento in cui si parla di agricoltura di precisione, di aerocoltura, di nano tecnologie, alcuni principi vanno senz’altro rivisti sia nel biologico sia nel convenzionale.

Corrado Giannone – Ristorando

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simona
simona
21 Marzo 2019 09:45

bell ‘ articolo

Vincenzo
Vincenzo
21 Marzo 2019 12:54

Bell’ articolo, vorrei sottolineare che praticare agricoltura biologica non è precluso a nessun agricoltore quindi se si pensa vi siano Maggiori introiti si può tranquillamente passare dal convenzionale al bio senza per questo denigrare chi lo fa.

Osvaldo F.
Osvaldo F.
21 Marzo 2019 14:05

La signora Simona è arrivata prima di me: ok, mi accodo, volevo scriverlo anche io: bell’articolo.
Sono già ripetutamente intervenuto sull’articolo sul bio di qualche giorno fa, sarò più breve. Faccio notare quanto riporta questo:
“Il confronto tra prodotti ottenuti con il metodo di produzione biologica e con metodo tradizionale, ha poi detto l’on. Gadda, non può basarsi solo sul valore nutrizionale, che è praticamente uguale”, che è stato uno dei punti di frizione tra me ed i sostenitori del bio. Evidentemente il mondo bio non sa bene informare? visto che invece ritiene il bio superiore. Aggiornate almeno i politici della vostra parte.
Poi voglio commentare questa altra parte:
“Per quanto riguarda le produzioni biologiche, occorre precisare che alcune pratiche attuali sono da rivedere, così come il sistema dei controlli, che oggi sono affidati a enti pagati dai controllati”.
Do’ ai consumatori una notizia balorda: questo succede (chiedo a Il Fatto Alimentare di confermare o meno, se ritiene) praticamente con tutti i prodotti top del Made in Italy… dal vino, al prosciutto, formaggi e via elencando. I controllori sono anche i controllati. Dirò di più: mi risulta che i Consorzi di Tutela abbiano “furiosamente lottato” per diventarlo, a quanto mi risulta ad esempio per i Consorzi del Vino, che “prima” non erano obbligatori, mentre adesso sono per legge “erga omnes” ed hanno assunto in proprio le Certificazioni ed i controlli, che prima venivano svolte/i da Enti Pubblici (ovviamente i controlli continuano ad essere fatti da ASL, NAS ecc., però prima anche la Certificazione era pubblica). Verrebbe da dire “cose all’italiana”, ma per fortuna siamo anche bravi produttori e quindi lode ai nostri buoni prodotti, furboni esclusi (mi viene in mente l’indagine sull’olio greco diventato EVO toscano IGP)
ps – pur non avendola letta, non avevo dubbi che la legge sul bio in discussione prevedesse sussidi… che malpensante

ezio
ezio
21 Marzo 2019 17:10

Tutti i servizi di certificazione di qualità sono pagati dal diretto interessato alla certificazione, perché è una sua scelta libera e non può essere addebitata ad altri non interessati ad ottenerla.
Le eventuali frodi e furbate in deroga ai disciplinari, sono appunto delle astuzie nascoste agli ispettori degli enti di certrificazione, indipendentemente da chi paga il servizio.
Mentre le eventuali corruzioni sono sempre possibili in ogni ambito delle attività umane, comprese quelle gestite da enti statali, forse e statisticamente più vulnerabili perché non c’è in gioco l’autorevolezza dell’ente privato che rischia il ritiro dell’autorizzazione statale per le certificazioni.
E’ solo un mio parere e non escludo la possibilità che in futuro questa funzione venga assolta direttamente da enti statali, ma che dovranno interessare tutte le certificazioni e non solo quella bio di cui discutiamo.
Sulla qualità dei prodotti bio, meglio fare riferimento alle molte analisi pubblicate sia dell’assenza di sostanze chimiche di sintesi (salvo rare eccezioni), sia per il maggior contenuto di antiossidanti, senza scantonare nel solito falso ritornello che non ci sarebbe alcuna differenza sostanziale tra bio e convenzionale.
Lasciamo per ultimo l’impatto ambientale che non è più solo un principio etico, ma visto il progredire dei disastri d’inquinamento delle terre e delle falde, oltre al recupero di territori abbandonati a se stessi, non possiamo più permetterci di fare sofismi intellettuali, per tentare vanamente di criticare una soluzione (non l’unica certamente) che tenta di rimediare ed invertire il degrado dei territori ed il ritorno ad alimenti puliti e non inquinati da sostanze di sintesi, sul cui effetto sulla salute umana ed animale poco si sa e nulla si comunica.

roberto Pinton
roberto Pinton
22 Marzo 2019 07:00

Sì, la “notizia” che dà ai consumatori è proprio balorda.

Per il formaggio Asiago il compito di tutelare, promuovere, valorizzare, informare il consumatore e regolare l’offerta ricade su Consorzio di tutela del formaggio Asiago, ma quello di controllare e certificare la conformità al disciplinare ricade su CSQA Certificazioni.

Per il formaggio Parmigiano Reggiano DOP il compito di tutelare, promuovere, valorizzare, informare il consumatore e regolare l’offerta ricade su Consorzio di tutela del formaggio Asiago, ma quello di controllare e certificare la conformità al disciplinare ricade su OCQ (Organismo Controllo Qualità Produzioni Regolamentate).

Per l’Abbacchio romano IGP il compito di tutelare, promuovere, valorizzare, informare il consumatore e regolare l’offerta ricade sul Consorzio di Tutela dell’Abbacchio romano IGP, ma quello di controllare e certificare la conformità al disciplinare ricade sulla Camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura di Roma.

Per la Pasta di Gragnano IGP il compito di tutelare, promuovere, valorizzare, informare il consumatore e regolare l’offerta ricade sul Consorzio di Tutela della Pasta di Gragnano IGP i, ma quello di controllare e certificare la conformità al disciplinare ricade su Certiquality srl.

Per il Chianti Classico DOC il compito di tutelare, promuovere, valorizzare, informare il consumatore e regolare l’offerta ricade sul Consorzio Vino Chianti Classico, ma quello di controllare e certificare la conformità al disciplinare ricade su Valoritalia srl.

E così via per tutti i prodotti DOP e IGP: i controllori non sono affatto i controllati.

Fornendo con sicumera quella che lei stesso qualifica come “notizia balorda”, lei dimostra di non sapere di cosa sta parlando.

Essendo del tutto distinto il consorzio di tutela (il cui compito è quello indicato negli statuti e sopra sommariamente indicato) dall’organismo di controllo (cui competono le ispezioni delle aziende produttrici, verificando la conformità al disciplinare approvato dal ministero delle Politiche agricole), anche quello che le “risulta” e di cui (dis)informa i lettori, e cioè che i consorzi avrebbero furiosamente lottato per diventare i controllori, tanto da aver assunto certificazioni e controlli, è evidentemente del tutto campato per aria.

Lei conclude indicando che, pur non essendole passato per la testa di leggere il disegno di legge, non dubita che essa preveda sussidi.

Ebbene, se, invece, l’avesse letto prima di commentarlo, saprebbe che non prevede affatto sussidi, ma la promozione di specifici percorsi formativi nelle università pubbliche e per l’aggiornamento dei docenti degli istituti tecnici agrari pubblici, il sostegno alle attività di ricerca che il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) nell’ambito della produzione biologica, del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria.

Comunque, complimenti, neanche il Napalm 51interpetato da Crozza avrebbe saputo far di meglio.

Tommaso Stefanini
Tommaso Stefanini
22 Marzo 2019 08:43

Articolo molo interessante! Mette in luce la contrapposizione tra soldi e scienza!
Vorrei però rivolgermi alla redazione del fatto alimentare e a tutti i sostenitori del bio perché “inquina meno” :
Perché non fate una serie di articoli parlando dei resistenti(anche non OGM), di tutte quelle varietà che vengono studiate affinché siano resistenti, quindi non necessitano di pesticidi, e allo stesso tempo produttive con ottimi prodotti? Perché i sostenitori del bio impongono la loro idea che permette l’uso di pesticidi invece di pubblicizzare queste varietà e usarle nei loro campi?

Roberto Pinton
Roberto Pinton
Reply to  Tommaso Stefanini
24 Marzo 2019 20:51

@Tommaso Stefanini

Nell’articolo “Il Biologico: chimica o natura? Un’analisi approfondita sulle questioni più spinose sollevate dai lettori” (https://ilfattoalimentare.it/agricoltura-biologica-questioni.html) è fatto presente che non c’è alcuna contrarietà dei produttori biologici al “ricorso a varietà resistenti alle avversità ottenute da incroci che non siano OGM o CRISP, come dimostra l’ampia diffusione, per esempio, di meli resistenti sia estivi che autunnali che superano l’emergenza fitoiatrica della ticchiolatura, conrilevanti vantaggi tecnici, ecologici, salutistici ed anche economici, offrendo standard paragonabili a quelli delle varietà classiche per pezzatura, colorazione, sapore, consistenza e, in genere, produttività”.

Valerio
Valerio
Reply to  Tommaso Stefanini
24 Marzo 2019 20:57

Per Tommaso: uno dei princìpi base del biologico è la scelta di specie, razze e varietà resistenti alle principali avversità e idonee all’ambiente di coltivazione/allevamento, proprio per ridurre l’impiego di fitofarmaci, fertilizzanti e farmaci veterinari. Trattamenti e concimazioni con prodotti chimici di sintesi sono visti come eccezionali, si può impiegare una gamma di mezzi tecnici estremamente limitata rispetto ai produttori convenzionali, dimostrando la necessità del ricorso a tali mezzi, per salvaguardare le produzioni dopo aver attuato tutte le altre pratiche disponibili come rotazioni colturali, salvaguardia della biodiversità e tutela degli organismi utili, concimazioni organiche, ecc. (vedere i regolamenti CEE 834/07 e 889/08).

Valerio
Valerio
24 Marzo 2019 20:38

Buongiorno a tutti, sono un tecnico del settore agroalimentare e mi occupo anche di biologico. Segnalo per completezza che anche gli agricoltori convenzionali ricevono milioni di euro di contributi nell’ambito della PAC (politica agricola comunitaria), principalmente “disaccoppiati”, cioè slegati dalla produzione. Basta avere un terreno coltivabile e tagliare l’erba almeno una volta all’anno per incassarli, quindi non si può certo dire che favoriscano l’autosufficienza alimentare. Anche se a questo si è arrivati dopo una serie di riforme tese a ridurre i costi pubblici della gestione delle eccedenze, perché il problema principale dell’agricoltura europea era la distruzione delle eccedenze alimentari per salvaguardare i produttori dal crollo dei prezzi. Quindi un’agricoltura con minori rese e minore impatto ambientale è sicuramente preferibile ad un’agricoltura che punta a maggiori rese per poi chiedere sussidi per il ritiro delle eccedenze, come avviene tuttora sia in Europa che negli USA in caso di crisi di mercato. Qualcuno dirà: e come combattiamo la fame nel mondo? Purtroppo la fame nel mondo non è dovuta alla carenza di produzioni alimentari, ma alla carenza di contropartite che possono offrire i poveri in cambio di alimenti. Non c’è la fame perché manca il cibo, ma perché i poveri non hanno soldi per comprarselo. Se poi volessimo saziare tutti veramente, dovremmo porci in tutto il mondo e anche in Italia il problema delle enormi superfici a livello mondiale utilizzate per colture non alimentari o voluttuarie, solitamente nei paesi poveri ma destinate ai consumatori dei paesi ricchi: pensiamo al tè, al caffè, al cacao. Se venissero coltivate quelle superfici per produrre alimenti per le popolazioni locali invece che beni da esportazione, migliorerebbero le condizioni di milioni di persone. Ma pensiamo anche in Italia ai vini da decine di euro a bottiglia o a tanti altri prodotti “raffinati” di cui magari ci vantiamo, pensate che le superfici impegnate siano destinate realmente all’alimentazione o non piuttosto a beni di lusso voluttuari che non vanno certo a saziare le persone ma costituiscono degli status symbol per pochi? La vera sfida del futuro, da affrontare con urgenza, è quella di produrre alimenti accessibili per tutti salvaguardando al tempo stesso l’ambiente, in particolare le risorse limitate come aria, acqua, suolo. C’è ancora molto da fare anche nel biologico per diminuire ulteriormente l’impatto, ma sicuramente è un primo passo.

Valerio
Valerio
24 Marzo 2019 20:50

Sul sistema di certificazione, con la famosa storia dei controllori pagati dai controllati, preciso che i sistemi di certificazione funzionano praticamente nello stesso modo in tutto il mondo, comprese le certificazioni che riguardano gli alimenti convenzionali (DOP, IGP, DOC, DOCG, rintracciabilità, origine, ecc.) ma anche tutti gli altri settori, dagli ascensori all’edilizia alla metalmeccanica. Vi rendo noto inoltre che molti controlli e certificazioni rilasciate da parte delle autorità pubbliche, comprese le ASL nel settore della sicurezza alimentare, avvengono dietro pagamento da parte degli operatori. Così come la revisione della macchina, della patente, ecc. in cui pagate l’ente o il medico che esegue il controllo e vi rilascia l’attestazione. Ma stranamente sembra che solo nel biologico questo sia un problema, nessuno di quelli che criticano il bio per questo aspetto invita a non mangiare il Parmigiano Reggiano, o il Pecorino Romano, o a non bere il Chianti o il Prosecco DOC perché sono certificati da organismi che si fanno pagare (e vorrei vedere, voi lavorate gratis?)

andrea
andrea
5 Aprile 2019 06:02

Per quanto non condivido il sistema di certificazione capisco la necessità dovuta, nella maggior parte dei casi, alla distanza tra produttore e consumatore. Invito per chi ha la possibilità a ristabilire contatti e legami di fiducia, che vadano oltre le certificazioni, con quei produttori che rispettano la propria terra e sono appassionati del proprio lavoro.
Grazie Valerio per le giuste osservazioni e gli ottimi chiarimenti!

Giampaolo
Giampaolo
6 Aprile 2019 08:58

Forse la soluzione sarebbe quella di coniugare i due metodi “bio” e “convenzionale” nella filiera già esistente detta AGRICOLTURA CONTROLLATA, che ad oggi destina i prodotti ovvero le materie prime solo alla trasformazione industriale per la produzione di esclusivamente di baby food. Il metodo “Controllato” prevede anche l’utilizzo di anticritogamici ma in modo controllato e certificato. Ogni lotto viene certificato e deve essere zero il residuo di qualsiasi principio. Solo i lotti a residuo zero entrano nella filiera baby food. Allargare questo concetto anche al mercato del fresco, a tutte le filiere, porterebbe ad una maggiore salubrità dei prodotti alimentari, garantirebbe maggiori controlli e maggiore sostenibilità ambientale, ed annullerebbe tutta una serie di contraddizioni in alcune abitudini alimentari.

ezio
ezio
Reply to  Giampaolo
6 Aprile 2019 11:43

Concordo in pieno sulla sana e saggia proposta.
Tutta l’agricoltura, ma anche la trasformazione dovrebbe essere “controllata e certificata” con gli stessi parametri di pulizia e salubrità del prodotto.
E’ sicuramente un bell’investimento, ma con notevoli ritorni sia sul piano commerciale, sia per la prevenzione ed il ritorno economico nelle spese della sanità pubblica.