Scritta “sugar“ composta da zollette di zucchero su sfondo rosa

Spilled sugar from a glass on a blue background. Giant sugar concentration in everyday beverages.

Aggiornamento 18 ottobre 2018

L’Andid   ha aderito ufficialmente  alla campagna per la sugar tax  invitando gli associati a firmare e inviare il modulo alla redazione de Ilfattoalimentare.it

Il sottoscritto (nome e cognome):

Professione e/o titolo:

Istituto o ente di riferimento:

Città di residenza:

aderisce alla petizione promossa da Il fatto Alimentare per chiedere al Ministero della salute di introdurre in Italia una tassa progressiva del 20% sulle bevande zuccherate.

(*) Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi del GDPR (Regolamento UE 2016/679) e del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”.

Società scientifiche che hanno aderito (18 ottobre 2018)

1 – Società Italiana Diabetologia (SID)

2 – Associazione nazionale dietisti (ANDID)

3 – Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS)

4 – European Childhood Obesity Group (ECOG)

5 – Slow Medicine

6 – Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP)

 

Prosegue la campagna de Il Fatto Alimentare per chiedere alle autorità sanitarie italiane l’introduzione di una “sugar tax” sui prodotti alimentari con un contenuto di zucchero aggiunto eccessivo, in linea con le indicazioni  dell’Organizzazione mondiale della sanità e come già avviene in Francia, nel Regno Unito e in decine di nazioni al mondo. All’interno dell’iniziativa, Il Fatto Alimentare ha pubblicato un’intervista a Francesco Branca dell’Oms, l’intervento dell’Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione (Ansisa), e il parere del presidente dell’Istituto superiore di sanità Walter Ricciardi. Adesso è il turno di Marco Tonelli, presidente di ANDID, l’Associazione nazionale dei dietisti italiani che si dichiara favorevole a un provvedimento di tassazione.

Secondo le ultime stime del rapporto Osservasalute 2016, riferito al 2015 in Italia il 35,3% della popolazione adulta viene considerato in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%). In altre parole poco meno di un italiano adulto su due (il 45,1%) presenta una situazione di eccesso ponderale. Ci sono strategie in Italia per affrontare il problema? Se sì, chi le porta avanti e con che risultati?

In Italia, le strategie più frequentemente attuate risultano essere le campagne d’informazione realizzate perlopiù all’interno dei contesti scolastici o, più recentemente, sui luoghi di lavoro in ambito pubblico; praticamente assenti, invece, l’applicazione di misure fiscali sebbene evidenze recenti ne suggeriscano una buona efficacia.

Noi tutti dovremmo però oramai aver ben chiaro come ogni attività di promozione di comportamenti alimentari salutari dovrebbe essere impostata sul processo “empowerment-control-choice” (responsabilizzazione, controllo, scelta), ovvero su processi che immergono le loro radici in contesti e in prestazioni professionali capaci di orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità dei cittadini, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi, partecipativi e stimolando le loro capacità di scelta.

Questo quadro richiama immediatamente un concetto di “Food Literacy” (o alfabetizzazione alimentare) – mutuato da quello più generale di Health Literacy (alfabetizzazione sanitaria) – come competenza e abilità per compiere scelte alimentari responsabili, a favore del proprio e altrui benessere, a cui ANDID sta dedicandosi con impegno, essendo appena riuscita a dare vita a una “comunità professionale” di confronto e approfondimento, a livello europeo e internazionale.

La capacità di pianificare la lista della spesa (per quantità e qualità), la capacità di scegliere, acquistare, conservare e preparare i pasti per sé stessi e gli altri sono diventate infatti una questione di crescente importanza nei Paesi occidentali nei quali, spesso, le persone si dichiarano “troppo impegnate per…”  e, per contro, l’industria alimentare – con le sue soluzioni pre o già pronte per l’uso – ha di fatto allontanato le persone dalla preparazione di pasti salutari e sostenibili a partire da ingredienti freschi.

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Il livello di alfabetizzazione alimentare in Italia è scarso o inadeguato per oltre il 70% della popolazione

Siamo pertanto particolarmente orgogliosi della collaborazione fra ANDID e CIRPA – Centro interdipartimentale per la ricerca in diritto, economia e management della pubblica amministrazione dell’Università degli Studi di Salerno – che ci ha condotto allo sviluppo e alla validazione di uno strumento concettuale di misurazione del livello di alfabetizzazione alimentare in Italia che ha evidenziato come questa risulti scarsa o inadeguata per oltre il 70% del campione di persone coinvolte, eterogeneo per genere, età, distribuzione geografica e livello di istruzione.

Sempre a proposito di strategie possibili, impossibile non ricordare anche l’accordo fra il Ministero della  salute e Anci del 2017, concretizzatosi nella firma del manifesto “Urban Health Rome Declaration” e la creazione della figura dell’Health city manager in ogni comune (o area metropolitana), per coordinare le politiche per la salute, in sinergia con le altre amministrazioni locali e sanitarie. Questo ambizioso progetto – soprattutto per ciò che riguarda le politiche alimentari urbane previste al punto 7 del documento – esorta a promuovere una cultura alimentare appropriata, attraverso programmi dietetici mirati, prevenendo l’obesità, le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2. La dichiarazione rimanda indiscutibilmente a esperienze cui guardare con grande interesse,  sviluppate in città come New York dove, attraverso specifiche azioni deliberate dai sindaci e dai consigli comunali che si sono avvicendati nel corso degli anni, sono state poste in essere – con discreto successo – strategie mirate alla prevenzione delle principali patologie correlate all’alimentazione, alla riduzione dell’insicurezza alimentare e alla creazione di un sistema alimentare urbano più sostenibile.

L’eccessiva assunzione di zucchero (o zuccheri aggiunti) attraverso bibite, succhi di frutta, merendine biscotti e snack è un problema per l’alimentazione degli italiani e, soprattutto, per i bambini e i giovani. Secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità pubblicato nel 2015, il consumo medio di carboidrati semplici degli italiani è il doppio del valore raccomandato (20-21% rispetto a un valore di riferimento che indica una percentuale inferiore al 10%). In alcuni Paesi europei si propone di vietare la pubblicità di certi prodotti destinati ai giovani o di vietare l’abbinamento di cibo e gadget o del cibo con personaggi dei cartoni animati. Siete d’accordo o pensate che ci siano altre strade possibili?

Negli ultimi anni abbiamo sempre più spesso sentito parlare e discutere di ambiente alimentare obesogenico, ovvero di tutti quei fattori (disponibilità, accessibilità, qualità e costo dei prodotti alimentari) che, influenzando l’ambiente, le opportunità e le condizioni di vita promuovono un contesto favorevole allo sviluppo delle patologie croniche non trasmissibili (obesità, diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari, alcuni tipi di tumori).

Sappiamo anche – come evidenziato ormai da molti autori – che i governi e l’industria alimentare rappresentano le due entità con la maggiore capacità di influenzare le modalità con le quali il cibo viene prodotto, venduto e consumato. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha da tempo sottolineato come la pubblicità alimentare diretta ai bambini influenzi le loro preferenze alimentari, le richieste d’acquisto e i loro consumi, evidenziando la necessità di proteggerli valutate le importanti ripercussioni sul loro stato di salute. La pubblicità alimentare è infatti in grado di raggiungerli nelle loro case, nelle loro scuole, al parco giochi, nelle palestre che frequentano o ancora nei siti on-line da loro visitati. Questo “sviluppo” pubblicitario, negli anni, è stato peraltro accompagnato da una “potente” trasformazione delle strategie utilizzate, divenute sempre più integrate, coinvolgenti e invasive.

ANDID, a tale proposito, ritiene che “l’interesse” dei bambini debba essere considerato questione prevalente in tutte le decisioni che riguardano la loro salute e che conseguentemente, dovrebbero essere assunti tutti i provvedimenti possibili per assicurare che i loro diritti (in questo specifico caso il diritto alla salute) siano rispettati, protetti e soddisfatti. In questo senso, può essere convenientemente richiamato l’articolo 17 della Convenzione sui diritti dell’infanzia che – sottolineando il diritto dei bambini a ricevere informazioni appropriate per la promozione del loro benessere sociale, spirituale e morale e per il loro benessere fisico e mentale ed evidenziando il ruolo importante dei media – recita testualmente “Gli Stati parti riconoscono l’importanza della funzione esercitata dai mass media e vigilano affinché il fanciullo possa accedere a una informazione e a materiali provenienti da fonti nazionali e internazionali varie, soprattutto se finalizzati a promuovere il suo benessere sociale, spirituale e morale nonché la sua salute fisica e mentale”.

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In Italia, le autorità sanitarie hanno un atteggiamento ostile verso la sugar tax e le etichette a semaforo

In Italia, al contrario di quanto avviene in Francia, nel Regno Unito e in altri Paesi europei, alcune autorità che operano nell’ambito della nutrizione e le associazioni delle aziende alimentari hanno un atteggiamento ostile verso la sugar tax e le etichette a semaforo. Qual è la vostra posizione?

L’Oms regione europea, nel Piano d’azione per le malattie non trasmissibili, esprime il proprio sostegno a politiche fiscali mirate, soprattutto quando attuate in associazione a informazioni specifiche presenti in etichetta, per contrastare significativamente alcuni fattori di rischio nutrizionale. L’argomento è indubbiamente “complesso e complicato”, considerato che pochi passi avanti sono stati fatti, nonostante la presentazione del modello europeo di profilo nutrizionale quale strumento per classificare gli alimenti in base alla loro composizione nutrizionale in salutare e malsano, da adottare o adattare in base al contesto nazionale su base volontaria, per limitare, ad esempio, l’esposizione dei bambini alla pubblicità alimentare o per escludere/limitare la presenza di alimenti e bevande ad alto contenuto di calorie, grassi saturi, zuccheri o sale in determinati contesti (ad esempio nei servizi educativi), o per elaborare politiche fiscali specifiche.

In sintonia con la Federazione delle associazioni europee di dietisti (EFAD), riteniamo che le misure fiscali possano rappresentare una strategia perseguibile, soprattutto quando attuate in associazione a informazioni mirate presenti sull’etichettatura nutrizionale, a un marketing alimentare responsabile o a interventi di marketing sociale – per contrastare significativamente alcuni fattori di rischio nutrizionale, generando peraltro – come dimostrato – “interessanti” guadagni di salute.

Il Crea ha assunto posizioni in aperto contrasto con la tassa sullo zucchero del 10-20% proposta dall’Oms e le nuove linee guida per una sana alimentazione degli italiani, che dopo 15 anni dovrebbero uscire nel 2018, non prevedono un allineamento alle indicazioni dell’Oms sui limiti di assunzione e non differenziano tra zuccheri aggiunti e zuccheri naturalmente presenti nel cibo. Qual è la vostra posizione?

ANDID ritiene irrinunciabile condividere uno stesso linguaggio: non essendo ancora disponibili le nuove Linee guida, nella nostra pratica professionale teniamo come riferimento le indicazioni contenute nelle Linee guida dell’Oms “Sugars intake for adults and children” e i termini “intrinsic sugars” (riferiti a quelli contenuti in frutta e verdura e lattosio e galattosio per il latte) e “free sugars” (riferiti ai mono e di-saccaridi volontariamente aggiunti agli alimenti e agli zuccheri naturalmente presenti in miele, sciroppi, succhi e concentrati di frutta).

ANDID aveva partecipato alla consultazione Oms precedente alla pubblicazione del documento, sostenendo – tra le altre cose – anche la necessità di una precisazione sull’High fructose corn syrup (HFCS, sciroppo di mais ad alto fruttosio), sempre più frequentemente utilizzato dall’industria alimentare, e proponendo che il 5% di zuccheri aggiunti nell’alimentazione di bambini e adulti diventasse un obiettivo da sostenere anche attraverso interventi di carattere educativo, normativo, sociale e politico, non ritenendolo un inutile divieto quanto un valore aggiunto a un diritto – il diritto alla salute – da tutelare attraverso un insieme di strategie e di interventi integrati, in un clima di fiducia reciproca e nel contesto di un processo partecipativo ampio e condiviso.

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Anche lo zucchero è una causa di land grabbing e violazione dei diritti delle popolazioni di aree in via di sviluppo

Non dimentichiamo, infine, che parlare di zucchero significa talvolta parlare anche di diritti umani violati e negati, oltre che di aspetti squisitamente nutrizionali, considerato che il commercio di zucchero è spesso alla base del fenomeno del land grabbing.

Se dovesse decidere una strategia per limitare l’invasione dello zucchero/i aggiunti  nell’alimentazione degli italiani cosa proporrebbe?

Una nuova classificazione degli alimenti in base al loro grado di “processazione”, sulla base della quale sviluppare un nuovo profilo nutrizionale per implementare le azioni e le attività sopra descritte e guidare l’elaborazione di raccomandazioni sull’importanza di limitare l’utilizzo di prodotti alimentari altamente processati e, in particolare, quelli dai profili nutrizionali inadeguati. Non dimentichiamo che molti prodotti altamente lavorati rappresentano fonti “nascoste” di grassi, zucchero e sale, e questa caratteristica è spesso non chiara ai consumatori.

 

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Giovanni Carosone
Giovanni Carosone
29 Settembre 2018 16:27

Mi rivolgo alla giornalista Sara Rossi. Sarebbe possibile una buona volta non ricorrere affatto o di rado a termini di importazione statunitense, neanche se fossero un nuovo Vangelo. Forse la giornalista non sa che l’italiano è una lingua con una letteratura alle spalle che gli Stati Uniti ci invidiano e quindi con un vocabolario in grado di far esprimere qualunque concetto. Sarei contento se mi desse una risposta che non sia la solita : l’inglese ( meglio la
lingua degli Stati Uniti ) è quella di comunicazione internazionale.Va bene. E allora?. Sono una persona di età avanzata. Nel corso della mia vita ho studiato 4 lingue straniere, unicamente per interesse personale e, le garantisco, nessuno mi ha mai sentito sfoggiare in modo così plateale una parola di esse. Giovanni Carosone.

Valeria Nardi
Reply to  Giovanni Carosone
1 Ottobre 2018 10:30

Gentilissimo Giovanni, i termini in inglese sono stati una scelta del nostro intervistato, e non ci è sembrato conveniente né proficuo toglierli, visto che tra parentesi c’è sempre la traduzione in italiano. Va poi considerato che i testi, le relazioni, gli studi in ambito scientifico sono sempre redatti in inglese.

claudio
claudio
1 Ottobre 2018 11:04

Complimenti per questo articolo, e grazie per l’uso dei termini anglofoni (e relativa traduzione) che ne arricchiscono il testo e la cultura generale di chi è interessato ad apprendere.

Mi auguro che l’iniziativa del Fatto Alimentare abbia esito positivo.