La vicenda dei nuovi sacchetti per l’ortofrutta, compostabili ma a pagamento, ha fatto perdere di vista i motivi per cui, probabilmente, è stata presa questa decisione. Si sta parlando di tasse sulla plastica, tentativi di ridurre i rifiuti derivanti da imballaggi, incentivi per l’adozione di un’economia circolare. La vera scintilla è stata la decisione della Cina di bloccare l’importazione di diverse tipologie di rifiuti come parte della campagna “National Sword” contro la spazzatura straniera. Il regolamento è stato annunciato a luglio 2017 e vieta, dal 1° Gennaio 2018, l’importazione in Cina di 24 tipi di rifiuti suddivisi in quattro categorie: alcuni tipi di scorie minerarie, plastica per rifiuti domestici, carta straccia non differenziata e tessuti di scarto. Proibite sono, per intenderci, le plastiche post-consumo, il PET delle bottiglie, i sacchetti, il PVC delle bottiglie di sciampo e detersivi, o per gli imballaggi alimentari, il PS delle posate usa e getta. Ma anche la carta da macero non selezionata.
Se fino a ieri la Cina importava ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti mondiali per alimentare la propria industria del riciclaggio, la recente decisione cinese ha costretto molti Paesi a porsi due domande fondamentali oggi e che lo saranno ancor più in futuro: come può essere gestita l’enorme quantità di plastica attualmente in circolazione? In prospettiva, quali misure possono essere attuate per ridurne l’impiego, non solo a livello industriale ma anche domestico?
Fin dagli anni ’80, la Cina è stato il più grande importatore mondiale di rifiuti, o “spazzatura straniera”, come viene comunemente chiamata in cinese; nel 2012 ha raccolto il 56% dei rifiuti in plastica esportati a livello mondiale e si stima che lo scorso anno siano stati importati 7,3 milioni di tonnellate di rottami di plastica da Europa, Giappone e Stati Uniti e 27 milioni di tonnellate di carta da macero. Numeri impressionanti che, data la mancanza di un’efficace sistema di supervisione e monitoraggio nel Paese asiatico, hanno determinato enormi problemi ambientali al territorio e di salute ai suoi abitanti.
La città di Guiyu, nella provincia di Guangdong, è divenuta tristemente nota nel 2003, quando un’indagine rivelò che fino all’80 per cento dei bambini nella città aveva livelli eccessivi di piombo nel sangue proprio a causa dei rifiuti. Nel Paese niente cernita dei rifiuti né contenitori per la carta o per le bottiglie vuote: sia nelle aziende che nelle case, tutto viene gettato in uno stesso recipiente sul bordo della strada. Una volta fuori, questi rifiuti attirano immediatamente l’attenzione di un vero e proprio esercito di raccoglitori che vagano per le strade delle città cinesi. Trainando dei grandi sacchi dietro le loro biciclette, vanno di contenitore in contenitore, raccogliendo la plastica, la carta, le bottiglie di vetro, il metallo.
«Certo, in passato i rifiuti urbani non erano un problema grave, ma con lo sviluppo economico e la moltiplicazione dei prodotti di consumo, in particolare l’arrivo degli imballaggi usa e getta di plastica nelle nostre vite, i rifiuti domestici sono diventati un vero problema», ha detto Wang Jing, una raccoglitrice di rifiuti a Pechino. Il numero di raccoglitori è stimato in 160.000 nella sola città di Pechino, il 90% dei quali sarebbero dei migranti rurali: differenziano i rifiuti, ne estraggono tutto quel che è possibile possa essere riciclato e si affannano a qualsiasi ora del giorno e della notte nelle strade della capitale e delle città cinesi. Una volta raccolti, i materiali sono trasportati e venduti a dei laboratori di riciclaggio che trasformano i prodotti e li rivendono alle grandi fabbriche.
Adam Minter, autore del libro Junkyard Planet sull’industria dei rifiuti in Cina, stima che i raccoglitori di rifiuti siano una decina di milioni in tutto il Paese, formando la seconda professione del Paese, dopo i contadini. «In Occidente, il riciclo è considerato come un’attività verde. Ma in Cina il riciclaggio delle bottiglie di plastica e il riciclo in generale rispondono molto più a un imperativo economico, piuttosto che un imperativo ambientale – spiega Minter – In Cina è estremamente raro vedere delle bottiglie di plastica che non vengono riciclate”. Aspetti molto ben documentati nel pluripremiato film “Plastic China” che mostra con dolorosi dettagli le gravi conseguenze per la salute e l’ambiente, ben lungi dall’essere limitate a scandali come Guiyu. Nel film si nota come intere famiglie risiedano tra montagne di rifiuti di plastica e i bambini siano costretti a giocarci nel mezzo. Vicino a queste discariche a cielo aperto, pecore mangiano detriti di plastica, pesci morti vengono prelevati direttamente dall’acqua e cucinati. Migliaia di fabbriche a conduzione familiare operano all’aria aperta triturando la plastica di scarto in piccole particelle per venderle alle fabbriche nel sud della Cina. A causa dei lunghi anni di lavoro negli impianti di riciclaggio, i lavoratori sono in grado di capire la natura delle plastiche, bruciandole con un accendino: gli basta osservare e annusarne i fumi per classificarle. E l’effetto dell’industria del riciclaggio sulla comunità circostante è chiaramente dimostrato. Gli anziani si lamentano della puzza, i contadini sono costretti a rimuovere grossi pezzi i di plastica di scarto che saltano nei campi e ostacolano la crescita di frutta e verdura, e la comunità non può più bere acqua dei pozzi perché è contaminata.
Il documentario ha toccato aspetti scomodi e profondi tanto da essere censurato in Cina: i trailer e le clip del film non possono più essere rintracciati nella rete e sui social media cinesi. Per vent’anni, la crescita cinese è stata alimentata dai rifiuti delle economie sviluppate. Per comprendere la dimensione del fenomeno, basta citare qualche cifra: dal 1995 al 2016 le importazioni sono decuplicate passando dagli iniziali 4,5 milioni di tonnellate a ben 45 milioni nel 2016. Nella notifica inviata da Pechino all’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) l’accusa è chiara: nei porti cinesi sono arrivate quantità spropositate di rifiuti sporchi e pericolosi mescolate a rifiuti solidi; con il risultato che il territorio cinese ha subito pericolose contaminazioni.
E proprio la bassa qualità di quella che avrebbe dovuto diventare materia prima seconda, è una delle principali ragioni che ha portato al bando. Ma non l’unica. La decisione di proibire l’importazione di alcune tipologie di materiali da recupero risponde infatti a diverse esigenze e ambizioni cinesi. I riciclatori occidentali ammettono che qualcosa non ha funzionato: le regole secondo cui i rifiuti avrebbero dovuto essere trattati e smistati prima della spedizione in territorio cinese sono state spesso ignorate. E dopo più di 40 anni trascorsi ad essere considerata la “pattumiera economica” dell’occidente, la Cina ha detto basta ed ha intrapreso un percorso che potrebbe far variare gli equilibri economici mondiali. I cui segnali sono inequivocabili:
1- La questione ambientale è ormai riconosciuta come una delle minacce, se non la più grave, allo sviluppo e alla stabilità – economica e sociale – della Cina. Nel lungo discorso di Xi Jinping al XIX Congresso del Partito Comunista proprio la parola “ambiente” (生态) o suoi sinonimi, ricorreva ben 89 volte. “Economia”, per fare un confronto, è stata pronunciata “solo” 70 volte
2- È stato sviluppato un sistema sempre più coerente ed integrato di norme di carattere ambientale, accanto ad un crescente coordinamento delle competenze “esecutive”, soprattutto in materia del monitoraggio, controllo e sanzione. Poco prima di capodanno, infatti, il Congresso Nazionale dei Rappresentanti del Popolo (la camera legislativa della Repubblica Popolare) ha approvato la prima imposta ambientale del paese. Si tratta di una decisione storica: questa tassa sull’inquinamento è destinata a diventare la principale leva legislativa in materia ambientale, con impatto immediato e significativo su tutte le aziende che operano in Cina
3- Il governo intende sostenere e promuovere l’avvio e lo sviluppo di un’industria del riciclo nazionale. A cominciare dalla gestione dei rifiuti urbani. Tradotto in parole povere, aziende di raccolta e selezione dovranno nascere e operare per chiudere un sistema di “economia circolare”.
4- Pechino si appresta ad assumere settantamila “educatori ambientali” che andranno porta a porta a spiegare come si fa la selezione dei rifiuti in casa.
5- Il governo di Pechino ha reso noti ambiziosi obiettivi di de-carbonizzazione dell’economia.
Oltre a queste regolamentazioni più stringenti, la Cina continua a investire massicciamente nella promozione di pratiche ecologiche. Per fare un esempio, le bacchette usa e getta, oggetti onnipresenti in Cina, sono ormai fatte di detriti di bambù trasformati provenienti dalle fabbriche di mobili. Altro esempio, “l’inquinamento bianco” dei sacchetti di plastica. Nel gennaio 2008, il governo cinese ha vietato ai negozi di distribuire i sacchetti di plastica gratuiti e ha chiesto ai consumatori di utilizzare borse di stoffa per ridurre l’inquinamento. Passo dopo passo, si osserva quindi una tendenza verso un miglior trattamento dei rifiuti, affiancato ad un’implementazione della capacità di riciclaggio del Paese.
Sperando di beneficiare della situazione, diversi paesi del sud-est asiatico, come la Malesia e il Vietnam, stanno attrezzando i propri porti per ricevere i rifiuti. Queste nazioni, comunque, non hanno la forza industriale per utilizzare la massa di materiale effettivo, per cui questa azione avrà presumibilmente la durata delle discariche disponibili, e si esaurirà velocemente. Ma se per il nostro continente la chiusura da parte della Cina risulta essere un problema di non facile soluzione, esiste certamente un rovescio della medaglia. Si tratta infatti di un’opportunità per l’intero sistema industriale per rivedere e ripianificare il mercato, quello degli imballaggi in plastica in primis, e per incentivare il nostro sistema di riciclaggio rendendolo più efficiente e conveniente.
Se è vero che la consapevolezza ambientale ha portato negli ultimi anni a un atteggiamento sempre più critico dell’opinione pubblica e a un timido tentativo di limitare l’utilizzo delle plastiche, questo non si è ancora tradotto in un sostanziale cambiamento sul mercato. Una delle partite, forse la più importante, si sta giocando, nei programmi per la ricerca e sviluppo di nuovi materiali biodegradabili e compostabili capaci di replicare le caratteristiche di versatilità e resistenza della plastica. Una sfida che anche la Cina sembra disposta ad affrontare attraverso ingenti investimenti nel settore. Se l’anno scorso il mercato europeo delle bioplastiche, rappresentava solo l’1% del totale di quello delle plastiche tradizionali, le cose potrebbero presto cambiare.
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