Gli impianti di acquacoltura, si sa, sono sistemi di allevamento particolarmente onerosi per l’ambiente marino e non solo. Più volte, negli ultimi anni, sono state accusate di impoverire e contaminare l’ecosistema, e di diffondere patogeni e relativi farmaci utilizzati per tenerli sotto controllo. Al tempo stesso, fughe come quella di salmoni verificatasi in Irlanda nello scorso autunno, con oltre 5.000 animali fuoriusciti, rotture e incidenti di vario tipo provocano ciclicamente disastrose dispersioni di animali spesso fragili che, però, anche solo per questioni numeriche, mettono a dura prova le popolazioni selvatiche della stessa specie (soprattutto salmoni) e gli equilibri generali di mari e fiumi.
Acquacoltura in crescita
Ciononostante, la loro diffusione continua ad aumentare. Negli ultimi due decenni, la produzione di pesce da acquacoltura è cresciuta del 5,3%, e nel 2018 oltre 126 milioni di tonnellate di prodotti ittici consumati nel mondo provenivano da un allevamento. Oggi, è allevato più di un pesce su due, tra quelli consumati.
Tra i Paesi più dedicati c’è il Canada, che attraverso i suoi impianti localizzati soprattutto nella Columbia Britannica dove se ne trovano più di 60, nel solo 2023 ha prodotto 50.000 tonnellate di salmone, per un valore di 350 milioni di dollari.
Tutto questo, però, almeno in quel Paese, ha una data di fine vita: il 30 giugno del 2029. Per allora, infatti, tutti gli allevamenti di quel tipo dovranno essere chiusi. Il Canada sembra così intraprendere un cambio radicale di rotta, limitando il numero di impianti ma, soprattutto, la tipologia: resteranno solo quelle teoricamente sicure, chiuse. Le operazioni, costose, complicate e lunghe, sono già iniziate, con l’ausilio anche di diverse ONG. Perché eliminare un’acquacoltura non è come lasciare un campo incolto: è estremamente più difficile.
Il reportage di Hakai Magazine
Per descrivere da vicino che cosa accade, Larry Pynn, giornalista ambientale della British Columbia, ha intervistato, per il magazine Hakai, diversi esperti e gruppi attivi in quella realtà, partendo da quanto è già accaduto quando, per vari motivi (tempeste, fallimenti, problemi di manutenzione) gli allevamenti sono stati abbandonati. Molto spesso, infatti, le attrezzature e i materiali utilizzati sono stati lasciati dov’erano e, dalla superficie e dalle acque superficiali, sono precipitati sui fondali, o si sono dispersi in colonne d’acqua che hanno provocato incidenti e contaminazioni. “L’abbandono non gestito è devastante”, ha affermato Ben Boulton, direttore del programma della Rugged Coast Research Society, un ente no profit locale che collabora con il governo per ripulire i detriti provenienti specificamente dagli allevamenti di molluschi.
“Ci si imbatte in cumuli di attrezzi che sembrano infiniti: un enorme caos costituito da reti, corde, boe, blocchi di cemento, secchi e vassoi di plastica, tubi in PVC, generatori, ancore in acciaio, armature in ferro, galleggianti, passerelle, banchine, fusti, pneumatici e polistirolo espanso abbandonati che possono persistere per decenni, minacciando tutto l’ambiente marino”. E gli esiti a volte sono sorprendenti (non in senso positivo). Per esempio, durante un’operazione in una struttura abbandonata a Vancouver, gli attivisti della no-profit Ocean Legacy Foundation hanno scoperto che un gruppo di lontre di fiume aveva iniziato a costruire tane all’interno del polistirolo espanso di galleggianti in decomposizione, e si alimentavano con i molluschi che crescevano su di esso.
I progetti e i controlli
Il Governo federale canadese, comunque, prevede che non ci saranno problemi di questo tipo, perché le procedure di dismissione sono state codificate in modo da evitare dispersioni: chi opera nel settore deve fornire i piani per le bonifiche e dare un deposito cauzionale per finanziarle. Inoltre, gli operatori sono quasi tutte multinazionali, in cui lavorano per lo più professionisti, fatto che espone a un rischio minore di abbandoni non gestiti, rispetto a quanto accade nelle aziende piccole e a conduzione familiare, che non hanno i mezzi per gestire le dismissioni. Lo stesso governo, del resto, ha già iniziato a sostenere i processi di chiusura, anche se per diversi osservatori le cifre stanziate sono del tutto insufficienti. Non solo. Boulton chiede che sia prevista sempre la presenza di un osservatore indipendente, che controlli l’andamento delle procedure.
Smantellare un impianto di acquacoltura
Uno degli ostacoli principali, come detto, è quello dei costi: smantellare un’acquacoltura costa moltissimo. Per dare un’idea, nel 2020, sempre la Columbia Britannica ha lanciato Clean Coast, Clean Waters, un’iniziativa che finora è costata circa 35 milioni di dollari per rimuovere più di 2.100 tonnellate di detriti marini e 215 navi abbandonate dalla costa della provincia. Solo nel 2024, è iniziata la bonifica delle prime due strutture abbandonate, che richiederà fondi non ancora definiti.
Il motivo di costi così elevati è evidente: i detriti sono spesso in luoghi inaccessibili, o su fondali profondi, e gli operatori devono intervenire in condizioni climatiche non di rado proibitive, agendo in grovigli inestricabili di materiali misti. Per dare un’idea, la rimozione dei rifiuti da parte della Rugged Coast Research Society, specializzata nella pulizia delle zone più remote e difficili da raggiungere della costa, inizia con l’utilizzo di un veicolo telecomandato, dotato di telecamera e artiglio, per ispezionare il sito. La ricerca visiva può essere integrata con un sonar identificare e mappare gli obiettivi.
I rischi
Quindi, quattro subacquei lavorano in condizioni di visibilità limitata e con significativi rischi di rimanere impigliati, al fine di allestire l’attrezzatura per la rimozione. Infine, la nave utilizza una gru idraulica per trasportare in superficie il materiale che poi si devono pulire, suddividere per tipo e portare a riva. In genere, circa la metà di quanto viene ripescato è riutilizzata o riciclata, mentre il resto finisce in discarica. A seconda della profondità dell’acqua, del tempo e delle maree, però, i subacquei talvolta hanno solo pochi minuti per lavorare per ogni immersione, e questo fa lievitare i costi e allungare i tempi fino a mesi interi.
La necessità di interventi specializzati, comunque, ha alimentato la nascita di un business costituito da privati che si dedicano alle bonifiche per conto delle autorità locali e federali. Un’operazione costa in media tra i 7.000 e i 35.000 dollari, ma può arrivare anche a 70.000 dollari, se l’intervento è particolarmente delicato.
Le nuove norme
Si sta comunque cercando di facilitare il raggiungimento dell’obbiettivo del 2029 introducendo nuove regole quali l’etichettatura obbligatoria, per identificare più facilmente i proprietari delle attrezzature danneggiate e abbandonate, e varie misure di contenimento per impedire la fuoriuscita dei materiali dalle reti.
Nello specifico, un provvedimento adottato nel 2022 ha fatto segnare un passo in avanti. Da quell’anno c’è infatti l’obbligo, per gli operatori, di assumere subacquei o utilizzare veicoli telecomandati per ispezionare il fondale marino allo scopo verificare l’eventuale presenza di vecchi attrezzi all’interno delle aree di pertinenza, e documentarne la rimozione.
Come conclude Pynn, il momento è favorevole, vista l’attenzione alla plastica dispersa in mare e in generale all’ecosistema marino. E il caso della Columbia Britannica potrebbe fare scuola anche per altri paesi.
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Giornalista scientifica