Accolta da uno scarso interesse, rispetto alla sua importanza anche simbolica, la notizia che lo stato della California ha dichiarato l’emergenza per l’epidemia di aviaria, porta la situazione di un’infezione che nessuno sembra in grado di fermare a un livello diverso. I timori che la situazione possa sfuggire di mano iniziano a diventare condivisi. A ciò si aggiunge un’altra notizia preoccupante: quella della prima persona – un cittadino ultrasessantenne della Louisiana con altre malattie – che versa in condizioni gravi, in ospedale. Prima di lui, le decine di lavoratori del settore degli allevamenti contagiate (61 quelle censite finora) avevano avuto sintomi influenzali lievi e congiuntivite anche se, secondo i Centers for Disease Control di Atlanta, in realtà la mortalità tra gli umani è molto alta: circa un contagiato su due rischia la vita.
La pandemia di aviaria
La misura della gravità della situazione la dà anche un articolo del New York Times, che afferma, nel titolo, che la pandemia è già in atto, tra gli animali. E il motivo è chiaro: dal 1996, anno del primo isolamento, in Cina, del virus H5N1 ad alta patogenicità (HPAI, da High Pathogenic Avian Influenza) a oggi, i volatili selvatici ritrovati morti sono decine di migliaia, e chissà quanti sono sfuggiti ai monitoraggi. Quelli allevati soppressi a causa di un focolaio sono più di mezzo miliardo.
Ma, soprattutto, questo virus si è dimostrato particolarmente abile nel compiere salti di specie, e ha infettato decine di animali tra i più diversi: dai felini agli orsi (trovati infetti in Francia e in Canada), dai visoni (un milione quelli soppressi in Danimarca) alle foche, dalle volpi ai leoni marini (decine di migliaia quelli morti dal Quebec al Cile), per un totale di non meno di 26 specie di mammiferi colpiti.
Della stessa opinione è la BBC, che a sua volta richiama l’attenzione su ciò che sta accadendo tra gli animali selvatici, tra i bovini allevati (oltre 800 gli allevamenti colpiti finora, in tutti gli Stati Uniti) e non solo.
Colpa del consumo di carne
I rischi attuali, secondo Thijs Kuiken, patologo dell’Erasmus University Medical Centre dei Paesi Bassi, dipendono soprattutto da un fatto: l’aumento costante di carne da allevamento, che vanifica gli sforzi che si stanno facendo per cercare di contenere l’infezione, e rende gli allevatori quasi sempre restii ad adottare misure preventive. Per dare un’idea, nel 1997, pochi mesi dopo il primo isolamento, i polli allevati nel mondo erano poco meno di 15 miliardi.
Oggi sono il doppio, e la biomassa dei polli allevati costituisce il 70% di tutta la biomassa dei volatili esistenti. Secondo Kuiken, se non si inverte questa tendenza, oltre all’aviaria, da quel mondo continueranno ad arrivare epidemie e pandemie. Qualche esempio? Il mycoplasma gallisepticum, malattia del pollame, infetta i fringuelli selvatici con un’elevata efficienza, mentre ceppi di un’altra zoonosi virulenta, la malattia di Newcastle, stanno ampliando la loro diffusione a volatili quali i pappagalli e gli ara, ormai presenti in moltissime città anche europee (e italiane).
Come siamo arrivati a oggi
L’anno di svolta, per la crisi attuale, è stato il 2020. In quei mesi già caratterizzati dalla pandemia da Covid si è visto per la prima volta un fenomeno tuttora non del tutto spiegato: la permanenza della circolazione del virus lungo tutto l’anno. Prima di allora, infatti, le ondate di influenza erano sempre state stagionali, e questo consentiva agli animali colpiti di eliminare l’infezione. Ora, invece, complici il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, il virus circola tutto l’anno, e in tutto il mondo dal Canada a Israele, dall’Europa del Nord alla Gran Bretagna, fino al Perù e al Cile, alle Falkland e all’Antartide. E percorrendo rotte di migliaia di chilometri, il virus ha infettato decine di specie diverse, molte delle quali per la prima volta, fino ad arrivare ai primi casi di bovini allevati, nella scorsa primavera, e ai primi maiali, nello scorso ottobre.
Per quanto riguarda la diffusione all’uomo, è dello scorso mese di settembre il primo contagio di una persona che, per quanto è stato possibile ricostruire, non era mai entrata in contatto con un animale da allevamento: un altro campanello d’allarme, e anche se dal primo caso in assoluto, del 1997, a oggi, gli esseri umani accertati sono stati solo 800, la crisi degli allevamenti e la presenza di virus vivi nel latte crudo potrebbe cambiare molte cose.
Che cosa ci dobbiamo aspettare
Secondo tutti gli esperti, non sarà possibile fermare la diffusione dell’aviaria negli animali selvatici: l’infezione è qui per restare, e sarebbe opportuno prenderne atto. Ciò che si può fare, invece, è cercare di contenerne la diffusione negli allevamenti e tra il personale che vi lavora. Per esempio, non toccando gli animali morti, per lasciarli alle autorità sanitarie e veterinarie, adottando misure preventive come i dispositivi di prevenzione personale (mascherine, tute, occhiali e così via) e ponendo particolare attenzione allo smaltimento delle carcasse. Secondo la World Organization for Animal Health (WOAH), poi, i governi dovrebbero prevedere sistemi di compensazione per gli allevatori costretti a sopprimere gli animali, per evitare che, per evitare perdite economiche, non denuncino i casi sospetti, mentre ancora abbastanza controversa è la questione dei vaccini, di cui si è occupata anche l’EFSA già un anno fa.
La vaccinazione
La WOAH ricorda che, laddove è stata applicata la vaccinazione su larga scala degli animali, i contagi sono scesi molto, e in effetti la Cina sta vaccinando, ma altri paesi temporeggiano, soprattutto per questioni economiche. In alcuni paesi, infatti, non si possono importare animali vaccinati perché si dà per scontato che la vaccinazione sia motivata da una crisi in atto. Anche in questo caso, secondo la WOAH sarebbe opportuno intervenire sui regolamenti internazionali, aumentando la sorveglianza in modo da garantire sicurezza assoluta ma, al tempo stesso, evitando che animali vaccinati solo a scopo preventivo, in assenza di focolai, siano bloccati alle frontiere. Occorre rivedere il sistema anche negli aspetti normativi.
Infine, bisognerebbe fare molto di più per convincere la popolazione a diminuire il consumo di carne: in Europa quello medio procapite è circa doppio rispetto a quello consigliato per mantenersi in salute. Una follia collettiva che va fermata.
La crisi dell’aviaria racchiude in sé tutti gli aspetti della crisi del pianeta, e anche per questo andrebbe affrontata più seriamente. Prima che sia tardi.
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Giornalista scientifica