Non sono solo i trasporti e l’industria ad avere effetti negativi sul pianeta. Anche la produzione alimentare ha un impatto decisivo che non possiamo trascurare. A essa, soprattutto alle attività agricole, si deve il 34% delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo. E la domanda di cibo è in continua crescita: si calcola che entro il 2030 (tra sette anni) utilizzeremo più del doppio delle risorse disponibili sulla Terra. Mentre queste stesse risorse, in una sorta di circolo vizioso, rischiano di essere sempre meno disponibili proprio a causa dei fenomeni estremi determinati dalle attività umane.
I dati e gli strumenti oggi a disposizione per cambiare rotta si trovano nel libro bianco realizzato nel corso dell’ultimo anno e presentato a marzo da DNV con il titolo The Integrated ESG Approach. Driving the future of Sustainable Food Systems. La società, un ente di terza parte indipendente che fornisce alle imprese servizi di certificazione, verifica e gestione del rischio, ha il suo quartier generale in Norvegia e opera in oltre 100 Paesi. È però proprio in Italia la sede principale delle sue attività nel settore alimentare ed è nel nostro Paese che lavora il gruppo di ricerca che ha realizzato il documento.
Il libro bianco offre una sintesi dei dati relativi all’impatto complessivo della produzione, della vendita e del consumo di cibo ed evidenzia come sia sempre più necessario e urgente un cambio di passo nell’impostazione delle politiche di sostenibilità delle aziende produttrici. Si sottolinea però anche che il termine sostenibilità, oggi conosciuto da un numero crescente di persone, va interpretato e considerato in maniera corretta. “Non è più possibile limitarsi a considerare sostenibili le politiche aziendali che mirano a una riduzione delle emissioni di gas serra – spiega Nicola Rondoni di DNV – si tratta di un approccio parziale, che valuta un solo aspetto della ben più ampia questione ambientale e non prende in esame le problematiche di carattere sociale e di organizzazione dell’azienda (governance)”.
Tra le tematiche ambientali che non sono comprese nei calcoli sull’impronta di carbonio spiccano, per esempio, l’uso del suolo e dell’acqua, ma anche la perdita della biodiversità e i consumi energetici. Il documento evidenzia i dati principali che riguardano questi punti: la metà delle terre abitabili è destinata alla produzione di cibo e ben l’80% dei terreni agricoli è dedicato a soddisfare le necessità degli allevamenti. Il bestiame, poi, rappresenta il 94% dei mammiferi che popolano il pianeta (esclusi gli esseri umani), quindi i mammiferi selvatici sono appena il 6% del totale. Rispetto all’acqua, inoltre, solo per citare i dati principali, si legge che il 70% delle acque dolci della Terra è utilizzato per scopi agricoli e, di queste, circa l’85% è impiegato per l’irrigazione.
L’attenzione del documento si focalizza naturalmente anche sulle questioni di carattere sociale e su quanto queste possano essere interconnesse con gli aspetti ambientali. Tra i dati evidenziati, emerge quello relativo al lavoro minorile in ambito agricolo, un settore nel quale sono impiegati il 70% dei minori costretti a lavorare. La malnutrizione, poi, è un problema che riguarda quasi 4 miliardi di persone, la metà delle quali ha deficit alimentari, mentre quasi lo stesso numero (1,9 miliardi di adulti) sono obesi o sovrappeso. A questi si aggiungono le 600 milioni di persone che, secondo l’Oms, si ammalano ogni anno a causa del cibo contaminato, delle quali oltre 400 milioni perdono la vita.
Un altro importante capitolo è rappresentato dalla questione degli sprechi. Il libro bianco calcola infatti che, se la somma di scarti e perdite alimentari fosse un Paese, sarebbe il più grande emettitore di gas serra dopo Cina e Stati Uniti. In pratica lo spreco, da solo, contribuisce al riscaldamento globale tanto quanto il trasporto stradale, senza alcuna utilità, anzi, consumando a sua volta terreno e acqua.
Il libro bianco sottolinea quindi come le sfide globali non possano essere affrontate con il vecchio approccio parziale, ma vadano gestite in maniera olistica, integrando gli aspetti ambientali, sociali e di organizzazione aziendale. Tale nuovo approccio è conosciuto come ESG (environmental, social, governance). Sono molte le interazioni tra queste macro aree e, in una logica di circolarità, considerarle in maniera integrata permette di superare il classico paradigma lineare che va “dal campo alla tavola”.
Un impegno che con ogni probabilità è più facilmente realizzabile dalle grandi aziende, dotate di maggiori risorse, ma che può e deve essere portato avanti anche dalle piccole e medie realtà tanto diffuse sul nostro territorio. “Per le realtà di piccole dimensioni – ha sottolineato Stefania Ruggeri, ricercatrice del Crea, in occasione dell’incontro di presentazione del documento – è importante procedere progressivamente, stabilendo delle priorità, ma si tratta di un percorso che va comunque intrapreso. Fino a poco fa le piccole imprese si sono regolate soprattutto seguendo logiche basate sui numeri, ma oggi deve essere il concetto di valore ad avere la priorità. Dalla coltivazione al consumo, produrre e mangiare in maniera sostenibile è decisivo sia per l’ambiente che per la salute”. In questo contesto le imprese non sono gli unici attori, ma occorre dialogo, trasparenza collaborazione e impegno da parte di tutti coloro che sono coinvolti, dalla politica agli enti, dalle associazioni alle diverse realtà che fanno parte della catena di approvvigionamento (trasportatori, magazzinieri, rivenditori), fino ad arrivare al cittadino, che oggi è sempre meno un consumatore e sempre di più si deve concepire come attore in grado, con le sue scelte e le sue esigenze di chiarezza e trasparenza, di fare la sua parte.
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