
Lama Obeid è una scrittrice palestinese che vive a Ramallah, in Cisgiordania. Scrive di cultura e di cucina per ribadire l’esistenza del popolo palestinese. Attraverso i suoi testi, pubblicati sul blog “I Come From There”, ma anche sulle testate internazionali The New Arab e Palestine in America, racconta l’occupazione israeliana attraverso la lente del cibo. Nell’articolo Il massacro della farina: a Gaza spezzare il pane è una questione di vita o di morte, Obeid spiega come nella Striscia di Gaza la farina sia diventata un bene di lusso: un sacco da 25 kg ha raggiunto i 500 dollari, un prezzo che ha fatto sì che quest’ingrediente venga chiamato “l’oro bianco”.
Oltre alle scuole, le università, gli ospedali, anche le panetterie sono diventate un bersaglio degli attacchi israeliani tanto che nel marzo 2025 nell’intera Striscia ne erano rimaste appena 15. Alla disperata ricerca di farina, i gazawi intraprendono in gruppo un viaggio estremamente pericoloso da nord a sud della Striscia che li costringe a stringere il cosiddetto “patto della farina”: se una persona viene uccisa lungo il tragitto, gli altri porteranno la farina alla sua famiglia. Le parole di Obeid raccontano il genocidio in atto, ma parlano anche di un’antica cultura gastronomica, di solidarietà e di resistenza. E questi sono anche i temi che risuonano nell’intervista che Obeid ha rilasciato a Il Fatto Alimentare.
Che cosa rappresenta il pane nella tradizione culinaria palestinese?
In Palestina il pane è uno degli alimenti principali di cui una famiglia non può fare a meno. Durante gli scioperi dove le attività commerciali chiudono, anche durante il Covid, le panetterie rimangono aperte in modo da poter garantire il pane. Durante la seconda Intifada, quando l’esercito israeliano impose il coprifuoco in Cisgiordania e le panetterie furono costrette a chiudere, le persone fecero il pane a casa usando la farina della loro dispensa.
Prima che iniziasse il coprifuoco, la gente si metteva in fila davanti ai panifici aspettando per ore il proprio turno perché era impensabile lasciare la famiglia senza pane. A colazione siamo soliti mangiare hummus, labneh [tipo di yogurt], zeit e za’atar [olio condito con una miscela di spezie e semi], uova, pomodori fritti, tutti accompagnati dal pane. Cuciniamo il nostro piatto tradizionale musakhan [pollo arrosto con diverse spezie] servito con il pane taboon [pita araba], facciamo il fatteh [insalata di ceci e yogurt] con il pane, mangiamo teglie di kofta [polpette di carne] e pollo con il pane, nel fattoush [insalata mista] aggiungiamo il pane. La merenda dei bambini a scuola è un panino pita.

Un amico di Gaza mi ha detto che se non hanno il riso va ancora bene, ma non possono stare senza farina e senza pane: per questo a Gaza ci sono persone che rischiano la loro stessa vita per un sacco di farina. Solitamente in Palestina le famiglie sono molto numerose – una famiglia piccola è composta da sei persone e una grande da dieci o 13 persone: quando crescono ai bambini si insegna a mangiare tutto accompagnato dal pane in modo da sentirsi sazi perché, altrimenti, è difficile mantenere famiglie numerose ben nutrite.
Nella Striscia di Gaza il prezzo della farina è elevatissimo. In Cisgiordania invece? Qual è il costo del cibo a Gaza e in Cisgiordania?
A Gaza, prima dell’inizio del genocidio, i prezzi erano molto inferiori rispetto a quelli della Cisgiordania perché il reddito medio dei gazawi è inferiore. In Cisgiordania i prezzi del cibo sono alti rispetto al reddito medio della popolazione, ma il costo di un kg di farina è ancora lo stesso di prima della guerra: circa 1,4 dollari al kg, mentre a Gaza un kg varia tra i 16 e i 20 dollari. Un kg di farina basta a malapena per fare il pane per un pasto di una famiglia.
La gente ha raccontato che a Gaza, a causa delle alte commissioni per recuperare contanti e dell’impennata dei prezzi al mercato, per un pasto semplice senza proteine animali – composto per esempio da un kg di farina, un barattolo di fagioli e qualche verdura – si raggiungono i 60-100 dollari. A Gaza, i terreni agricoli sono stati distrutti e di conseguenza anche i prodotti locali sono molto cari, lo stesso vale per il trasporto delle merci a causa dell’assenza di benzina e di veicoli ancora funzionanti. Anche molte strade principali sono state distrutte o sono bloccate da macerie che rendono impossibile il trasporto in alcune aree se non a piedi. È comune vedere persone che trasportano a piedi la farina caricandola sulla schiena.
Il futuro della Cisgiordania
In Cisgiordania fare la spesa di prodotti di base al mercato può costare circa 100 dollari o più in base alla dimensione della famiglia. Il guadagno medio è di circa 600 dollari: il cibo è costoso. Le famiglie provano a comprare i prodotti in sconto e a contrattare nei mercati locali, spesso comprando prodotti e beni di prima necessità all’ingrosso per risparmiare. Prima del genocidio, in Cisgiordania i prodotti freschi (fragole, pomodori, cetrioli ma anche pesce e frutti di mare) provenienti da Gaza avevano un buon prezzo, ma dopo il 7 ottobre non si trovano più al mercato. Inoltre, a causa delle chiusure e dei checkpoint in Cisgiordania, i prodotti freschi sono aumentati di prezzo. Finché in Cisgiordania i confini rimangono aperti, i prezzi non si alzeranno come a Gaza, ma, in caso contrario, ci sarà uno scenario simile a quello di Gaza e ciò è molto plausibile.

Israele, oltre alla terra, si è appropriata anche dei piatti palestinesi, come l’hummus, il tabbouleh o i falafel. Qual è il significato di questo saccheggio?
Israele si è appropriata della terra, del cibo e della cultura. Si tratta di appropriazione culturale della popolazione autoctona e del tentativo da parte dello Stato israeliano di creare delle proprie radici attraverso il saccheggio della cucina palestinese e di altre culture dell’area. Nel 1936 è stato pubblicato in Palestina dalla Women’s Zionist International Foundation il primo libro ebraico di cucina intitolato Come si cucina in Palestina. Questo testo insegnava alle casalinghe ebree provenienti dall’Europa e insediate in Palestina come parte del progetto sionista come cucinare con i prodotti locali.
Erna Meyer, l’autrice del libro, scrisse: “Noi casalinghe dobbiamo lasciarci alle spalle le tradizioni culinarie europee che non si adattano al contesto palestinese. Dovremmo sposare a pieno la salutare cucina palestinese”. Quest’affermazione appare ironica se si pensa che ora vengono considerati israeliani molti piatti della cucina palestinese e che viene negata l’esistenza stessa della Palestina. Tutto ciò dopo che si sono appropriati del nostro cibo e hanno preso con la forza la nostra terra.
In che modo scrivere di cibo rappresenta una forma di resistenza?
In Palestina, siamo sistematicamente oggetto di pulizia etnica: generazioni di rifugiati sono in diaspora. Il cibo è ciò che ci tiene in vita e legati: condividere ricette antiche, cucinare e mangiare cibo palestinese mantiene viva la nostra cultura.
Molte persone affermano che oggi, proprio mentre avviene un genocidio, non c’è tempo per scrivere di cibo; secondo me, proprio perché la fame viene usata a Gaza come arma di guerra, è proprio il caso di farlo. La gente viene sistematicamente e intenzionalmente affamata, anche fino alla morte. È duro assistere a ciò nel ventunesimo secolo, mentre l’opinione pubblica è molto attenta ai diritti degli animali e alla tutela ambientale. A Gaza la popolazione viene ridotta alla fame
Con azioni che violano il diritto internazionale senza alcuna conseguenza. Nessun leader e nessun Paese è in grado di risolvere il blocco che non fa arrivare il latte artificiale ai bambini anche se le donne sono così malnutrite da non riuscire a produrre latte per i loro figli. Dobbiamo parlare di cibo, di nutrizione, della deliziosa cucina palestinese di cui il nostro popolo a Gaza è privato. Nella Striscia si setaccia la farina piena di vermi pur di avere qualcosa da mangiare. Una situazione che, se si volesse, potrebbe finire in un minuto con l’apertura dei confini.

Puoi descriverci la situazione a Gaza rispetto all’accesso al cibo?
La situazione a Gaza è davvero grave, le persone sono disperate. Le mense fanno fatica a rimanere aperte: si cucina con quello che si ha a disposizione, cioè pasta, lenticchie, riso. Il cibo è spesso insapore, ma le persone mangiano quello che c’è. Si va alla ricerca di qualsiasi cosa ci si possa permettere, in alternativa si attende il cibo delle mense o quello distribuito. Da quando l’American Gaza Humanitarian Foundation (GHF), guidata da marines statunitensi e compagnie di sicurezza, controlla l’arrivo degli aiuti, è diventato pericoloso andare alla ricerca di cibo. Un massacro dietro l’altro che ha visto l’esercito israeliano e i droni prendere di mira chi aspettava gli aiuti.
Recarsi nei punti di distribuzione gestiti da GHF rappresenta oggi una condanna a morte, ma le persone sono così affamate da rischiare la vita pur di ricevere qualcosa: in poco tempo cercano di recuperare più aiuti possibili per poi sdraiarsi a terra per evitare gli spari. Oggi a Gaza le persone hanno due possibilità: morire di fame o essere ammazzati da cecchini o droni israeliani.
Basta genocidio
Mi rattrista scrivere di cibo, di genocidio e di denutrizione. Non vorrei parlare di come il mio popolo è ridotto alla fame, ma è qualcosa che il mondo deve ascoltare e conoscere. La cucina palestinese è colorata e deliziosa, ma a Gaza le persone non possono più goderne. Fare e condividere foto di cibo mi sembra sbagliato quando a Gaza, vedendo queste immagini, potrebbero solo desiderare i nostri piatti tradizionali senza però poterli cucinare per mancanza degli ingredienti stessi. A nessuno piace scrivere della pulizia etnica e della fame del proprio popolo. Desidero che il genocidio finisca e che si possa parlare della cucina palestinese con gioia sapendo che la gente di Gaza è al sicuro e libera di cucinare nuovamente.
© Riproduzione riservata. Foto: Lama Obeid ©, Mona Zahed ©, Hamada Shaqoura ©, Anas Al-Sharif ©
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Grazie di questa testimonianza. Sui media la narrazione della guerra troppo spesso ne deumanizza le vittime.
tutto ciò è inumano, non riesco a capire come degli esseri umani possano agire in questo modo nei riguardi di altri esseri umani. Definirli bestie offenderebbe gli animali
Interessante questa cosa dell’appropriazione culinaria, che non conoscevo (anche se mi pare che la cucina ebrea avesse le sue ricette da ben prima, ma qui sembra che il discorso sia più un fattore di prodotto locale disponibile, e la facilità di usarli con le ricette palestinesi già molto ben rodate, la cosiddetta furbizia ebrea…), ovviamente le influenze europee sono entrate in una, e viceversa.
Per i fatti odierni, condanno sia una parte, che l’altra (che però stranamente, qui non viene citata), ovvero quel Hamas che usa la loro stessa popolazione come scudo, senza la minima preoccupazione, mettendo civili inermi tra due fuochi.
Il governo israeliano è diventato quello che in Europa gli aveva presi di mira, ed è veramente triste e sconvolgente.
Conosco due israeliani che erano miei compagni di studio qui in Italia, e non tutti sono contro la Palestina e i palestinesi (anzi, speravano che un giorno ci fosse una convivenza pacifica), ma purtroppo certi personaggi hanno idee diverse.
Ormai Israele c’è, la convivenza è l’unica strada che avrebbero dovuto prendere dall’inizio, ciò non fu fatto per colpa di alcuni nel governo israeliano, e ciò che poi è diventato il pasticcio Iraniano palestinese con aggiunta di bracci armati ben riforniti ha portato a ciò che vediamo.
Sono indignata. Quello che avviene a Gaza è terribile ma il 7 Ottobre viene da voi totalmente ignorato. Israele ha fatto molto per tutti, compreso i palestinesi che si curano e lavorano in Israele, Parlate dell’orrore a Gaza. E’ giusto ma le pietre ed i coltelli verso gli israeliani non contano? Le aggressioni agli ebrei o israeliani di altre fedi in giro per il mondo non contano? Vi ho scritto e non rispondete.
L’orrore è cominciato molto prima del 7 ottobre. E direi che ormai è inammissibile citare i fatti del 7 ottobre quando siamo di fronte a una risposta che, anche poco dopo pochi mesi da quella data, è stata definita da diversi governi, esperti e studiosi (anche ebrei) sproporzionata. Il Post pochi giorni fa scrive “I palestinesi di Israele costituiscono circa il 20 per cento della popolazione, e pur essendo a tutti gli effetti cittadini israeliani sono da sempre soggetti a pesanti forme di discriminazione politica e sociale. Vivono per la maggior parte nelle zone più povere e meno sviluppate del paese, e hanno generalmente livelli di istruzione più bassi.
La comunità si formò in seguito alla Nakba, cioè l’esodo forzato e violento dei palestinesi dalle loro terre dopo la guerra del 1948 tra Israele e i paesi arabi e palestinesi. Dal 1966 i palestinesi di Israele hanno formalmente tutti i diritti e i doveri degli altri cittadini israeliani, tranne la leva obbligatoria (che per gli arabi è facoltativa), ma nella pratica hanno molte limitazioni nelle libertà civili, politiche e sociali.”
Riguardo le aggressioni in giro per il mondo riteniamo che bombardare e affamare uomini, donne e bambini palestinesi non aiuti nessuno.