Che fine fanno le microplastiche onnipresenti in agricoltura che arrivano agli animali da carne e, nello specifico, ai ruminanti come i bovini? E quelle che involontariamente entrano a far parte del pasto degli animali marini? Le domande sulla sorte dei frammenti di plastica che entrano in catene alimentari non umane non hanno trovato finora molte risposte, nonostante non esistano catene alimentari isolate, a sé stanti, i cui effetti non arrivino anche all’uomo. Ora due studi pubblicati negli stessi giorni iniziano a fornire qualche indicazione. E non si tratta di messaggi rassicuranti, anzi.
Le microplastiche nel rumine
Nel primo caso i ricercatori di Helsinki (Finlandia), Zurigo (Svizzera), Monaco e Hohenheim (Germania) hanno voluto riprodurre in laboratorio che cosa accade in un rumine in cui entrano le microplastiche. Finora infatti si è sempre pensato che ne uscissero indenni, non modificate e non digerite, ma i test effettuati hanno delineato uno scenario molto diverso. Come riferito sul Journal of Hazardous Materials, gli autori hanno prelevato il liquido ruminale presente in vacche che avevano mangiato orzo o fieno e lo hanno messo a contatto con cinque tra le plastiche più utilizzate in agricoltura (nei teli, nelle tubature, nei contenitori dei fitofarmaci e così via): l’acido polilattico (PLA), il poliidrossibutirrato (PHB), il polietilene ad alta densità (HDPE), il cloruro di polivinile (PVC) e il polipropilene (PP), in diverse dosi e con particelle di dimensioni variabili, al fine di valutarne gli effetti sul microbiota e sulle plastiche stesse.

I risultati non rassicuranti
Il risultato è stato che nessuna delle plastiche testate è rimasta inerte, in nessuna delle condizioni fissate, e tutte hanno interagito alterando le fermentazioni e l’attività del microbiota. Per esempio, si è avuta una diminuzione dei gas prodotti, fatto che indica in generale un calo dell’attività di fermentazione, e si è vista una diminuzione della quantità di materia solida scomparsa, cioè digerita. Il che significa che anche parte della plastica viene digerita e, quantomeno, trasformata in particelle molto più piccole, che si depositano più facilmente nei tessuti. Inoltre, in particolare nelle incubazioni con il liquido legato all’orzo, è cambiata l’attività dei batteri presenti, con un aumento misurabile delle proteine associate allo stress e una diminuzione di quelle coinvolte nel metabolismo degli aminoacidi e degli zuccheri (fenomeno anch’esso tipico dello stress).
Come hanno sottolineato gli autori, i dati mostrano che l’apparato digerente dei bovini si comporta come un bioreattore, scompone e degrada le microplastiche, e che queste ultime alterano l’attività del microbiota. Le plastiche trasformate, poi, arrivano di nuovo nell’ambiente e con ogni probabilità anche a chi mangia la carne o beve il latte, come è stato dimostrato in altri studi. È quindi necessario – concludono – oltre ad approfondire questo genere di studi, estendendoli a tutti gli animali allevati per la carne, migliorare la gestione della plastica in agricoltura e, soprattutto, diminuirne drasticamente le quantità impiegate, per ridurre la presenza delle microplastiche nei mangimi.

Letali a dosi molto inferiori del previsto
Il secondo studio, pubblicato su PNAS, analizza invece gli effetti delle microplastiche su tre tipi di animali marini: gli uccelli, le tartarughe e i mammiferi. Per verificare la quantità di plastica letale per questi animali, i ricercatori di Ocean Conservancy, ONG statunitense attiva da più di cinquant’anni, hanno analizzato i risultati di oltre 10.400 necropsie (autopsie di animali) condotte in tutto il mondo su oltre 1.500 uccelli di 57 specie, 1.300 tartarughe di tutte e sette le specie e di oltre 7.500 mammiferi marini di 31 specie.
Per tutti erano note la quantità di plastica riscontrata e le cause del decesso. Hanno quindi verificato la presenza di plastiche di vario tipo, da quelle più sottili e morbide come quelle dei sacchetti e dei palloncini a quelle più resistenti come quelle delle bottiglie. Il risultato è stato che, in media, per un uccello marino come una berta dell’Atlantico (Ardenna gravis), che misura circa 28 centimetri di lunghezza, sono letali plastiche in quantità pari a tre zollette di zucchero; per le tartarughe come la Caretta caretta (circa 90 cm di lunghezza) a due palle da baseball e per mammiferi come le focene comuni (Phocoena phocoena), un metro e mezzo di lunghezza, quanto un pallone da calcio.
Microplastiche ma grande danno
Bastano quantità di quest’ordine di grandezza per causare la morte del 90% degli esemplari, e se si va a vedere le quantità che provocano la morte del 50% i rapporti sono anche peggiori. Meno di una zolletta di plastica uccide una berta su due, meno di mezza palla da baseball una Caretta su due, meno di un sesto di pallone una focena su due. Inoltre, per gli uccelli le plastiche peggiori sono quelle dure e quelle gommose, per le tartarughe sempre quelle dure e quelle leggere e per i mammiferi quelle morbide e l’attrezzatura da pesca in plastica.
Anche se le dosi letali variano da specie a specie e in base al tipo di plastica e alle dimensioni dei frammenti, secondo gli autori non ci sono dubbi sul fatto che siano inferiori, e non di poco, a quanto ritenuto finora.
I ricercatori di Ocean Conservacy, alcuni dei quali che nel 2024 hanno dimostrato la presenza di microplastiche nell’88% delle proteine sia animali che vegetali consumate dagli esseri umani, hanno anche visto che le microplastiche sono presenti in circa la metà del tubo digerente delle tartarughe, in un terzo di quello degli uccelli e nel 12% di quello dei mammiferi; nell’insieme, un animale su cinque tra quelli esaminati in tutto il mondo conteneva plastica. Oltretutto, metà degli animali era già inserita nelle liste rosse dell’International Union for the Conservation of the Nature, che definiscono le specie a rischio estinzione. Oltre che per i danni alla biodiversità e al perturbamento delle catene alimentari, hanno concluso, la plastica rappresenta un pericolo per le sostanze che rilascia, anche in mare.
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Giornalista scientifica


