Nei giorni scorsi, la notizia è rimbalzata dai media ai social: Nusret Gökçe, meglio noto come Salt Bae, ha aperto un ristorante a Milano, in Brera: è il primo in Italia, ma la sua catena ha già una trentina di ristoranti in diversi Paesi. L’ex macellaio turco, oggi cuoco e influencer, è diventato famoso per un gesto apparentemente esecrabile, con il quale cosparge le bistecche di sale, facendo scivolare quest’ultimo sul braccio. Esecrabile, perché la quantità di sale è molto elevata, in relazione al taglio di carne, e il gesto è dunque contrario alle campagne per la riduzione del sale che molti Paesi stanno facendo da anni, peraltro con risultati abbastanza insoddisfacenti. Perché il sale continua a piacere, e le persone, nel mondo, in media ne assumono circa il doppio rispetto alle dosi consigliate dalle autorità sanitarie.
Ma perché non si riesce a scalfire questa abitudine? E quali sono i quantitativi di sale ottimali? Poco sale è sempre un bene? Per fare un po’ di chiarezza, la BBC ha dedicato un lungo articolo al tema, dal quale emerge che la regola aurea è quella della mediocritas latina: non eccedere, certamente, ma neppure di scendere a livelli troppo bassi, perché il sale è fondamentale per l’organismo.
Che cosa dicono le linee guida sul sale
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il consumo giornaliero di sale non dovrebbe superare i cinque grammi, pari a due grammi di sodio. Le Dietary Guidelines for Americans arrivano a 2,3 grammi di sodio, mentre quelle britanniche indicano 5,6 grammi di sale ( che contengono una quantità di sodio pari a 2,4 g). Nel Regno Unito e negli USA, però, il consumo medio è rispettivamente di 8,4 e 8,5 g, mentre l’assunzione media globale, sempre secondo l’OMS, è di 10,8 grammi al giorno, e quindi più che doppia rispetto ai limiti indicati.
Uno dei motivi principali di questa discrepanza è il fatto che, in media, solo un quarto del sale assunto è quello aggiunto attivamente dalle persone nel momento della cottura o dopo. Tutto il resto arriva dagli alimenti acquistati, che contengono quasi sempre più o meno sale, anche quando sono dolci come, per esempio, i cereali da colazione.

Secondo i Centers for Disease Control and Prevention statunitensi (CDC), circa il 40% del sale assunto ogni giorno proviene alimenti come la pizza, i burrito, gli hamburger e gli altri grandi protagonisti della dieta americana, quasi sempre ultra processati. E, per aggiungere confusione alla confusione, le etichette indicano spesso il sodio, ma non tutti sanno che è un componente del sale (che è cloruro di sodio) e non sono due termini equivalenti. Per questo non pochi ritengono che il sodio sia in qualche modo meno dannoso del sale. In realtà, le proporzioni sono queste: in 2,5 g di sale è presente un grammo di sodio.
I rischi dell’eccesso
I danni del sodio sono noti da anni: già nel 2002 un rapporto dell’OMS indicava come troppo sale fosse associato all’ipertensione, a sua volta responsabile del 62% di tutti gli ictus e del 49% delle patologie coronariche, e come i decessi attribuibili all’eccesso di sale fossero ogni anno non meno di 1,8 milioni. Tra le altre, una revisione del 2009 di 13 studi svolti in 35 anni ha mostrato che ogni cinque grammi di sale in più al giorno (oltre ai 5-6 consigliati) sono associati a un aumento il rischio generale di sviluppare una malattia cardiovascolare del 17% e quello di avere un ictus del 25%.
La controprova arriva dagli studi sulla riduzione, sia osservazionali che controllati. Per esempio, un’analisi dei dati ufficiali britannici del periodo compreso tra il 2003 e il 2011 ha fatto vedere che, se si diminuisce di 1,4 g la quantità di sale assunta ogni giorno, la pressione scende e, grazie a questo, il rischio di ictus mortali diminuisce del 42%, e quello di decessi per patologie cardiovascolari cala del 40%.
Dove la riduzione del sale ha avuto successo
Un caso noto è quello del Giappone, dove le campagne per un calo del consumo di sale sono iniziate già negli anni Sessanta. Secondo un’indagine del 2011, aver portato il consumo giornaliero da 13,5 a 12 grammi ha causato una diminuzione generale dei valori di pressione, e un abbattimento dei decessi per ictus dell’80%. Lo stesso si è visto in Finlandia, dove le campagne hanno avuto inizio mezzo secolo fa. In quel caso, il passaggio dai 12 g di fine anni Settanta ai 9 g del 2002 è stato associato a un calo dei decessi per ictus e malattie cardiovascolari del 75-80%.

Nel 2023, poi, è stata pubblicata una ricerca controllata, nella quale una dieta con poco sale per una sola settimana ha garantito gli stessi effetti dei farmaci, sulla pressione.
Anche se talvolta si è fatto notare come sia difficile isolare l’effetto specifico della riduzione del sale in persone che adottano una determinata dieta, perché di solito tutta la qualità dell’alimentazione migliora, così come crescono l’attenzione verso i cibi peggiori, e quella verso lo stile di vita e il movimento, i benefici sono ormai indiscutibili. Del resto, per motivi anche etici (l’eccesso di sale può uccidere), è impossibile condurre studi con gruppi di controllo (con diversi quantitativi di sale) per lunghi periodi, e bisogna quindi attenersi ai grandi studi di popolazione, alcuni dei quali si basano su decenni di dati.
I rischi della carenza
C’è comunque un fattore che non sempre viene tenuto nella giusta considerazione, quando si consiglia di diminuire il sale: la sensibilità personale, che dipende dalla genetica, dallo stile di vita, dalle eventuali malattie presenti, dall’indice di massa corporea, dal gruppo etnico di appartenenza e da altri elementi. Secondo alcuni studi, chi ha una sensibilità più elevata è anche più a rischio di ipertensione da sale.
Anche per questo possono esserci riduzioni troppo drastiche, che portano l’organismo in uno stato di carenza, e che andrebbero evitate. Una metanalisi del 2014 ha mostrato che quantitativi al di sotto di 5,6 g/die hanno effetti negativi sulla salute (così come superiori a 12 g/die), e lo stesso è emerso in una ricerca del 2020, con danni soprattutto alle persone che hanno già uno scompenso cardiaco. Esisterebbe quindi un intervallo ottimale, entro il quale restare, tenendo sempre presente il sale che si nasconde negli alimenti industriali o comunque lavorati, e che la sensibilità personale ha un ruolo non secondario.
Anche per questo, in definitiva, secondo diversi esperti, la misura più utile a livello di popolazione è la riformulazione delle ricette. A livello di singola persona, invece, è bene cercare di rimanere entro un intervallo di quantitativi medi, e soprattutto seguire le indicazioni dei medici, che dovrebbero sempre tenere conto dei diversi elementi.
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Giornalista scientifica



eppure una domanda la devo rivolgere, se non ai ricercatori scientifici, alla giornalista Codignola: ma i cibi che costituiscono la materia base della nostra alimentazione, cioè tutti quelli non lavorati, non contengono già del sodio, in proporzioni variabili? tra tutti gli esseri animali viventi sulla Terra, possibile che noi si debba essere gli unici a voler aggiungere del sale per nutrirci?
Questo è il motivo per cui il consumo medio nel mondo è doppio rispetto alle reali esigenze. E’ vero, quasi tutti gli alimenti contengono sodio (non saprei dire se proprio tutti), e quindi molto dipende da ciò che una persona mangia, ovvero dal fatto che la sua dieta sia o meno ricca di alimenti con sodio. Ciò che però è dimostrato è che il gusto salato è gradito all’essere umano, probabilmente perché l’organismo ha bisogno di una certa quantità, e questo spiega perché, a tutte le latitudini e da centinaia se non migliaia di anni, l’uomo aggiunge sale che, in molti casi, non sarebbe necessario. Basta fare la controprova: se ci si abitua a mangiare per esempio insalata condita con olio e aceto o carne insaporita solo con erbe si capisce che non c’è (non ci sarebbe) alcun bisogno di sale. E una volta acquisito quel gusto, si trova sgradevole, perché troppo salato, lo stesso alimento con sale.
A me sorge il dubbio che l’essere umano si è abituato al sale perché nel corso della sua evoluzione cominciò ad usarlo come modificatore del gusto prima (per potersi cibare di cibi microbiologicamente alterati) e come conservante in seguito.
Inoltre, il valore del sale si è accentuato in seguito per il significato economico che assunse. Sia come denaro, sia come merce di scambio.
Quindi non vorrei che, nel corso dell’evoluzione, si fosse sviluppata, anche geneticamente, una predisposizione specifica. Che in talune persone è indomabile.
L’industria alimentare prima – in seguito anche panificatori, pasticceri, cuochi, ecc. – scoprì presto i vantaggi del salare: copre l’insipienza degl’ingredienti nei trasformati, conserva, solletica il palato, soddisfa le persone che non riescono a farne a meno.
Per fortuna già da qualche anno sia i pizzaioli che i panificatori hanno ridotto la quantità!
C’è sempre comunque il grande sospetto che gli studi sul sale siano una delle varie cortine fumogene alzate dai gruppi di controllo di catene del fast food per spostare l’attenzione verso un falso obiettivo.
Poi resta sempre la questione del dilemma tra efficienza e salute. Il sodio partecipa in modo rilevante ai processi chimici del cervello, quindi… sani o arguti? Chiaro che un eccesso non è mai un bene ma è tutt’altro che un bene una carenza.
Ultimamente sto osservando con interesse e preoccupazione l’ultima lotta per salvaguardare la salute e che coinvolge di nuovo le facoltà cerebrali: l’abbassamento (secondo me pretestuoso se non addirittura molto sospetto) dell’altro carburante cerebrale, il colesterolo la cui soglia “salutare” è stata abbassata a 150 dopo una brevissima sosta a 200 dagli originali 250-300. Chissà quanto ne gioiscono – stranamente – le farmaceutiche che producono le statine, che – guarda caso – diventano “per la vita”!