Quante volte ci succede di uscire da un ristorante insoddisfatti? Abbiamo mangiato bene, speso una cifra ragionevole, eppure qualcosa non ha funzionato. Perché mangiare, a maggior ragione mangiare al ristorante, è un’esperienza complessa che non mette in gioco solo il palato, ma tutti i nostri sensi e le nostre emozioni. Come spiega Vincenzo Russo, professore di Psicologia dei consumi e neuromarketing alla Iulm di Milano, in un saggio appena pubblicato, Neuroscienze a tavola – I segreti del cervello per avere successo nella ristorazione (Guerini editore). Non siamo macchine pensanti che si emozionano, “piuttosto macchine emotive che pensano“, spiega l’autore. E oggi la scienza ci permette di interpretare le nostre reazioni di fronte a un piatto o a un menu. “Possiamo misurare le emozioni di cui siamo coscienti, ma anche comprendere i meccanismi di cui non siamo consapevoli”, spiega Russo. Spesso razionalizziamo a posteriori, e le nostre considerazioni su quanto avvenuto non sono altro che un tentativo di spiegare, anche a noi stessi, perché quel locale o quel piatto non ci ha soddisfatto. Oggi possiamo capirlo grazie all’integrazione tra strumenti diversi come l’eyetracker, sviluppato agli inizi del 1900, che permette di analizzare i movimenti oculari, o altri più moderni come l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica funzionale, ma anche dispositivi che ci permettono di analizzare il battito cardiaco, la respirazione e la sudorazione. “In questo modo raccogliamo dati sia sugli elementi cognitivi che sulle emozioni, che magari non esterniamo perché non vogliamo offendere l’interlocutore o abbiamo paura di fare brutta figura”, sintetizza l’autore.

La disciplina che studia gli aspetti immateriali che contribuiscono a farci apprezzare o meno un alimento si chiama neurogastrofisica: “La nostra percezione è influenzata da diversi elementi, che possono farci avvertire differenze che non esistono – spiega Russo – un dessert servito su un piatto bianco, per esempio, è percepito come più dolce rispetto a un’identica preparazione proposta su un piatto nero”. E perfino il sottofondo sonoro può influire sulle nostre percezioni: una musica ad alta frequenza fa percepire come “più dolce” il cibo che stiamo gustando.

Il segreto dei buoni ristoranti è proporre un pizzico di innovazione, ma senza sconvolgere troppo

Anche le aspettative giocano un ruolo importante: sappiamo da test con la risonanza magnetica che il nostro cervello reagisce in modo diverso se il vino che stiamo bevendo è presentato come un prodotto di gran pregio, o invece come una bevanda ordinaria. “Intendiamoci, – ricorda Russo – un vino cattivo resta tale qualunque cosa ci dicano, ma un buon prodotto può diventare migliore se adeguatamente valorizzato”.

Così, un ristorante di un certo tono deve avere un arredamento curato che anticipa la ricercatezza delle vivande: “Non è il caso di esibire un menu con le foto dei piatti, che ricordano i ristoranti turistici, o di lasciare in sala il televisore, trasmettendo il messaggio che si va in quel locale per guardare la partita più che per mangiare,” esemplifica Russo. La ricerca conferma che assegnare ai piatti nomi accattivanti è una strategia efficace: la “torta salata alle zucchine della nonna” ci sembra più appetitosa di una semplice “torta alle zucchine”.  Ma attenzione, i menu che offrono troppe scelte non piacciono, e non solo perché ci fanno dubitare della freschezza delle varie preparazioni: “Diversi studi confermano che il nostro cervello preferisce i messaggi semplici, se ci vengono proposte troppe scelte, siamo meno invogliati a consumare – spiega Russo – si chiama proprio ‘paradosso della troppa scelta’”.

Ovviamente non tutti hanno gli stessi gusti. Ci sono tre grandi variabili da prendere in considerazione: età, genere ed etnia. Cinesi e italiani per esempio reagiscono ai colori in modo diverso, mentre tra gli europei non ci sono differenze rilevanti. Anche la biologia gioca un ruolo nel farci piacere o meno determinati sapori, e non solo perché non tutti apprezziamo le novità allo stesso modo: ci sono super taster, persone particolarmente sensibili ai sapori, che possono non apprezzare gusti forti o amari. “Più in generale in noi, o meglio nel nostro cervello, convivono un’area razionale che è attratta dalle novità, e una più primitiva che preferisce esperienze familiari: il segreto, in gastronomia come in pubblicità, è proporre un pizzico di innovazione, sufficiente a incuriosirci ma senza sconvolgerci troppo”, osserva l’autore.

Dessert Crepes with Nutella or Chocolate Spread and Whipped Cream ristoranti
Il vero problema di certi ristoranti è che il personale di sala è sottoposto a un continuo turn over

C’è da chiedersi perché spesso i ristoratori trascurino elementi sensoriali e relazionali così importanti, come il valore dell’accoglienza: il vero problema di certi ristoranti è che il personale di sala è sottoposto a un continuo turn over, che rende difficile una formazione adeguata. “A volte – spiega Russo – sono i ristoratori a non rendersi conto che le loro idee possono essere sbagliate, per esempio eccedono con i disinfettanti per dare un’idea di pulizia, o inondano il locale di luce bianca senza sapere che una luce più calda e naturale, attivando specifiche cellule a essa sensibili, valorizza le pietanze oltre ad avere effetti positivi sull’umore. Oppure non capiscono quanto contino piccole attenzioni come il cioccolatino col caffè o un liquore offerto a fine pasto, gesti che non incidono sui costi, ma creano un senso di riconoscenza che fa venire voglia di tornare in quel locale”. E poi ci sono incidenti di percorso: “Come quando in una cena di gala ci hanno servito un delizioso dessert al cucchiaio in un piatto rigato su cui il cucchiaino sbatteva, producendo un fastidioso rumore che rovinava completamente l’esperienza”, ricorda Russo.

Ora gran parte della ristorazione è ferma. Cambierà qualcosa quando torneremo a mangiare fuori? “I trend  che si erano già manifestati anni fa – conclude Russo – si stanno radicando: le parole chiave sono autenticità, sobrietà, semplicità e naturalità. Oggi molti consumatori puntano a risparmiare, limitando i consumi e cercando le promozioni più allettanti. Ma al tempo stesso cercano la qualità nei prodotti e nelle esperienze, ed è proprio su questo che il mondo della ristorazione dovrebbe investire”.

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Mauro
Mauro
30 Gennaio 2021 13:16

Osservazioni che condivido in pieno, ad esempio ho sempre trovato sgradevole e insoddisfacente il gusto dei cibi servito con piatti e posate di plastica, forse perché mentalmente le situo, e me con loro, nella mensa della Caritas, o forse perché con quelle stoviglie mi manca il contatto materico con il metallo e la ceramica che dall’infanzia accompagnano i miei pasti casalinghi.

Ma anche le forme hanno la loro importanza, una pietanza servita in un candido “catino da barbiere” con una profonda ciotola centrale e un enorme orlo mi dà immediatamente l’impressione di essere fredda, e scarsa, e mal realizzata, e in generale “fuori posto”, come se pranzassi in un sanitario ospedaliero.

Per non parlare delle mise en table ultraminimaliste senza tovaglie, simpatiche per una polentata su di un rustico tavolaccio in legno in un rifugio alpino ma sgradevoli se il tavolo è in cristallo nero in un ristorante pretenzioso.

Quanto ai locali con schermi perennemente accesi, se non sono il Bar Sport sono di una cafonaggine inaccettabile, capace di levare il piacere del cibo a una jena digiuna da giorni, e non mi ci inoltro oltre la soglia.

Vedo però che gran parte delle persone non si avvedono di nulla, forse troppo intente a pispolare sui cellulari per rendersi conto di quale realtà squallida ci stia sempre più circondando.