La Direttiva Europea 2020/2184 sulle acque destinate al consumo umano entrata in vigore il 12 gennaio 2022 è stata la risposta all’iniziativa Right2water promossa da 1,8 milioni di cittadini europei che avevano chiesto alla Commissione di aggiornare la normativa del 1998 per garantire il diritto di accesso all’acqua potabile e un’adeguata fornitura di servizi igienico-sanitari. Gli Stati membri dovranno recepire le nuove norme entro il 2023, introducendo limiti più stringenti agli sprechi e all’inquinamento di contaminanti come i Pfas e le microplastiche. Oltre a ciò si dovranno realizzare sistemi agricoli più sostenibili, incoraggiare il consumo dell’acqua di rubinetto e aumentare l’attività di sensibilizzazione della popolazione in chiave anti-spreco.
Ad andare in questa direzione c’è l’Italia, il Paese europeo che almeno dal 2012 detiene il primato per quantità di acqua dolce prelevata per uso potabile (9,2 miliardi di metri cubi all’anno, per un consumo pro capite che va da 150 a 240 litri al giorno). Il confronto va fatto con il “fabbisogno idrico”, quantificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in 50 litri di acqua potabile pro capite al giorno). La colpa è dovuta in gran parte al cattivo stato delle infrastrutture, che porta la nostra rete idrica a sprecare quasi il 40% dell’acqua trasportata (3,5 su 8,2 miliardi di metri cubi). In più, nonostante gli ultimi sondaggi Istat e Ipsos riflettano una sensibilità della popolazione italiana per le tematiche ambientali in crescita (+4% degli adulti e +15% dei giovani rispetto al 2021), ancora pochi considerano con preoccupazione le previsioni del World Resources Institute, secondo il quale nel 2040 l’Italia sarà in una situazione di stress idrico molto critica. Solo il 22% degli intervistati le considera veritiere, mentre il 52% pensa che questo scenario sia troppo pessimistico e ancora modificabile, mentre l’11% lo ritiene del tutto falso.
Attualmente gli abitanti del Bel Paese restano tra i più spreconi d’Europa. Solo 1 italiano su 2 è cosciente di quanta acqua consuma effettivamente ogni giorno (il 68% dei cittadini ritiene che il consumo per famiglia sia inferiore ai 100 litri giornalieri laddove il volume reale è 5 volte superiore). E, in generale, il consumo di acqua risulta oggetto di scarsa attenzione da parte delle famiglie, soprattutto perché seppur con grandi differenze tra Regione e Regione e tra una città e l’altra rilevate da Altroconsumo nel 2022, le nostre tariffe sono tra le più basse d’Europa (1 metro cubo, ovvero più di 1.000 litri, costa in media 1,37 €). Per questo motivo gli eventuali sprechi pesano meno sul budget domestico rispetto a quelli di energia, elettrica e gas. In particolare è scarsa la conoscenza dell’impatto idrico di alcuni comportamenti a tavola e in cucina.
Molte persone ammettono l’efficacia di alcuni “rimedi della nonna” per risparmiare acqua come ad esempio: raccogliere l’acqua fredda non utilizzata quando si attende di ricevere quella calda; riutilizzare l’acqua di cottura della pasta o del lavaggio delle verdure per sciacquare i piatti prima di metterli in lavastoviglie o per annaffiare le piante; lavare subito le stoviglie prima che si formino incrostazioni ed evitare di farlo sotto l’acqua corrente, con uno spreco fino a 12 litri d’acqua al minuto. È altrettanto riconosciuta l’utilità di installare rubinetti con rompigetto aerato per ridurre il flusso dell’acqua e di adottare lavastoviglie di classe energetica elevata (una A+++ consuma 7 litri d’acqua, meno della metà rispetto a una classe A, che ne consuma fino a 15 e utilizzandola senza prelavaggio e sempre a pieno carico si risparmiano 8000-11.000 litri all’anno), ancora in pochi sono consapevoli dell’impatto idrico delle proprie scelte alimentari.
La percentuale di acqua dolce destinata all’alimentazione in Italia rappresenta solo il 4% del totale. Bisogna però tenere presente il ruolo significativo che la dieta quotidiana ha sul consumo idrico relativo alla cosiddetta acqua “invisibile” o “virtuale”, cioè quella utilizzata direttamente e indirettamente per produrre un determinato cibo e farlo arrivare a tavola, determinandone la cosiddetta “impronta idrica” (water footprint). Si tratta di un parametro che varia in base alle caratteristiche del luogo di produzione, al tipo di suolo, ai fattori climatici, alle tecnologie agricole e alla modalità di gestione delle diverse tipologie di risorse idriche, come la cosiddetta acqua “verde” (acqua piovana conservata nel suolo e che supporta in modo invisibile e difficilmente misurabile l’agricoltura non irrigua e la conservazione della biodiversità) e quella “blu” (acqua superficiale presente in fiumi, laghi e falde freatiche, che rappresenta il 35% circa del totale di acqua dolce disponibile per uso umano, ed è di facile accesso e trasporto, ma non sempre “rinnovabile”).
Per aiutare i cittadini a rendere più sostenibili i propri comportamenti a tavola gli esperti includono tra le buone pratiche alcuni consigli dietetici “a basso impatto”, come mangiare meno carne a favore dei vegetali. Sebbene l’agricoltura assorba complessivamente il 40% dell’acqua dolce prelevata dalle falde e dai bacini distribuiti sul territorio europeo (con l’Italia in testa alla classifica dei Paesi comunitari con il settore primario più “idrovoro” e un consumo di 14,6 milioni di metri cubi di acqua ogni anno), nelle aree a clima mediterraneo gli alimenti di origine vegetale hanno comunque un impatto idrico fino a 100 volte inferiore rispetto a quelli di origine animale. Secondo le stime, per produrre 1 kg di carne di manzo sono necessari mediamente circa 15.000 litri di acqua; 4.800 litri per quella di maiale e 3.700 litri per il pollame, mentre per produrre la stessa quantità di pomodori sono necessari 200 litri, per le patate 180-280 litri e per la lattuga 130-230 litri.
Sempre in ottica di sostenibilità idrica, gli esperti consigliano di preferire i prodotti agroalimentari coltivati in modo biologico, perché il terreno mantiene una struttura che favorisce una maggiore infiltrazione e ritenzione idrica, richiedendo una minore irrigazione. Pertanto, nonostante la crescita dei prodotti bio sia più lenta rispetto a quelli coltivati con l’uso di fertilizzanti, nel complesso il volume totale di acqua consumata è equivalente, o persino inferiore. Anche mangiare prodotti “locali” e “di stagione” aiuta il risparmio idrico, perché gli alimenti processati coltivati in serra o provenienti da lontano richiedono ulteriore acqua durante le fasi di lavorazione (dal lavaggio alla pulizia dei macchinari fino al riscaldamento delle serre), imballaggio e trasporto (per il carburante).
Tra gli strumenti alla portata dei cittadini che permettono rendere più sostenibile il proprio stile di vita ci sono i vademecum elaborati da diverse associazioni ed enti (come Enea, Legambiente e gruppo Cap – Gestore del Servizio Idrico integrato), mentre per calcolare e comparare l’impatto idrico di alcuni tra i cibi più comuni ci sono la piattaforma online Water Footprint Network e UBO app, l’applicazione sviluppata nell’ambito del progetto Una Buona Occasione che fornisce l’indicazione dell’impronta idrica di oltre 500 alimenti.
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Essere vegetariani permette quindi all umanità di risparmiare un bene. preziosissimo ,l acqua..Come spiegato bene nell’ articolo esistono rubinetti che nn solo fanno risparmiare acqua ,ma hanno anche la capacità di trasformare l acqua fredda in acqua calda per cui a fine mese ci sarà un ulteriore risparmio energetico poiché si risparmia sulla accensione della caldaia .Bisognerebbe scrivere un articolo per farli conoscere meglio…
Sentivo in radio, l’altro giorno, un esperto di sostenibilità ambientale dire che il lavaggio dei denti (2-3 volte/dì a persona) fatto con l’acqua che scorre comporta una quantità di litri (clorati) gettati molto elevata.
Molto molto interessante