Plastica inquinamento rifiuti spazzatura

Sono passati vent’anni da quando Richard Thompson, direttore della International Marine Litter Research Unit dell’Università di Plymouth, in Regno Unito, ha utilizzato per la prima volta il termine ‘microplastiche’, in uno studio pubblicato su Science, per descrivere particelle di plastica del diametro di pochi micrometri (oggi si applica a frammenti inferiori ai cinque millimetri) di diversi polimeri presenti sulle coste inglesi, e in deciso aumento rispetto alle quantità rilevate nel 1960. Quel lavoro ha segnato l’inizio di una lunga serie di ricerche, il cui numero, oggi, ha superato le 7mila unità. E tutti questi studi hanno dimostrato in modo sempre più inconfutabile l’inquinamento ubiquitario da microplastiche, che si trovano ovunque le si vada a cercare, e la cui quantità, nel frattempo, è raddoppiata.

Le microplastiche sono dappertutto

Solo negli ultimi giorni, un gruppo internazionale di ricercatori giapponesi e tailandesi ne ha descritto la presenza nello scheletro dei coralli del mare della Tailandia, in un articolo pubblicato su Science of the Total Environment. La scoperta potrebbe spiegare, in parte, la drammatica scomparsa dei coralli visibile un po’ in tutte le barriere, e anche perché, rispetto alle quantità sversate in mare, quelle rilevate nei campionamenti siano sempre inferiori (anche del 70%): sarebbero intrappolate nei coralli. 

Uno squalo nuota tra i pesci nei pressi di una barriera corallina tropicale
Un recente studio ha scoperto microplastiche inglobate all’interno dello scheletro dei coralli

Alla conferma dell’accumulo nei più diversi ambienti acquatici e marini e in oltre 1.300 specie viventi si sono aggiunte via via le prove degli stessi fenomeni in numerosi organi e tessuti umani, l’ultimo dei quali, in ordine di tempo, è il cervello, che si pensava protetto dalla barriera ematoencefalica, preceduto di qualche settimana dai testicoli. 

Prodotte milioni di tonnellate di plastica ogni anno

Il motivo è chiaro: ogni anno si producono in media 40 milioni di tonnellate di plastica, e ne vengono sversate in mare tra 4,8 e 12,7 milioni (di tonnellate), un terzo delle quali in Asia. Se nulla dovesse cambiare, le stime prevedono un raddoppio entro il 2040. Per questo si deve agire. Non ci sono più dubbi, scrive oggi Thompson, in un nuovo articolo su Science: l’umanità continua a produrre plastiche che finiscono nell’ambiente, e che lì restano virtualmente per sempre, perché sono impossibili da rimuovere. E questo ha gravi ripercussioni anche a livello sociale. La quantità accumulata è ormai tale da richiedere azioni globali e drastiche, che non possono necessariamente essere limitate al solo riciclo. È giunto il momento di produrre e utilizzare molta meno plastica, a cominciare dal settore alimentare, che è quello più problematico per volumi impiegati e per tipo di utilizzo. 

L’appello, il cui testo è una sintesi delle principali scoperte degli ultimi anni, è firmato da esperti di diverse discipline, compresa Sabine Paul, docente di psicologia sociale applicata, perché l’utilizzo della plastica è ormai talmente radicato nelle abitudini umane, che qualunque azione globale richiede anche uno sguardo socio-antropologico.

Infine, il lavoro non è stato pubblicato adesso solo per celebrare i vent’anni dalla prima definizione. Nei prossimi giorni si svolgeranno infatti le settimane degli Oceani europea e delle Nazioni Unite, mentre il trattato globale sulla plastica delle Nazioni Unite (United Nations’ Plastic Pollution Treaty) inizierà la quinta fase della discussione a novembre, e gran parte della comunità scientifica è mobilitata per ottenere accordi e regole che portino a una vera svolta.

© Riproduzione riservata Foto: Depositphotos

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