La cena si sta concludendo con un ottimo gelato al pistacchio di Bronte, mentre la conversazione scivola sui nuovi modi di mangiare che stanno invadendo la cucina italiana. Particolarmente accesa è una mia compagna di tavola, quasi inorridita della nuova e barbara diffusione nelle nostre città dei kebab e delle ‘kebabberie’. Sostiene che bisognerebbe vietare questi locali che rappresentano la cultura araba, a noi estranea, o per lo meno relegarli, se non ghettizzarli, in quartieri periferici e conclude affermando: “Vuoi mettere la dolcezza di questo nostro gelato di pistacchio, in confronto con cibi esteri e, soprattutto, arabi come, appunto il kebab?”. A costo di rovinare la serata e di inimicarmi la gentile convitata, non posso tacere, ricordando le origini del gelato al pistacchio che sta gustando.
Gli arabi non hanno certo esportato solo il kebab! Sono infatti proprio loro che, durante il dominio della Sicilia tra l’827 e il 1091, aggiungono lo zucchero di canna (as-sokkar è parola araba) alla bevanda fresca dal nome sherbet (sorbetto), importata dai loro paesi, e dal sorbetto inventano il gelato usando il freddo delle nevi del Mongibello, che poi noi abbiamo chiamato Etna. Sono sempre gli arabi che portano in Sicilia il pistacchio, pianta originaria dalla Persia e Turchia e da loro denominata fristach e frastuch e che alle pendici dell’Etna trova l’habitat ideale per uno sviluppo rigoglioso. Sarà una semplice e quasi unica coincidenza, quella dell’origine araba del gelato, in particolare quello di pistacchio, cerca di ribattere la mia compagna di tavola. Non mi è però difficile passare brevemente in rassegna il menù della serata per dimostrarle quanto sia araba la nostra cucina, non solo siciliana, ma anche nazionale, iniziando dal cibo più identitario: la pasta!
Gli antichi romani si nutrivano principalmente di zuppe di cereali e leguminose e gli etruschi hanno la pasta di grano tenero, ma è il geografo e viaggiatore arabo Muhammad al-Idrīsī (1099 – 1164 circa), invitato dal re Ruggero II di Sicilia a Palermo, a raccontare che a Termini (Pa) vi è un abitato che si chiama Trabia, incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi mulini, dove gli arabi, con la semola di grano duro, hanno insegnato a fabbricare tanti vermicelli (itriyah) da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli di altri territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono moltissimi carichi per nave. La pasta secca di provenienza araba è infatti ottenuta da semola di grano duro, la stessa che serve per il loro cuscus, e ha un grande ruolo nella navigazione mediterranea. Mentre nelle navi cristiane che solcano il Mediterraneo i marinai si alimentano con pappe o zuppe di leguminose, nelle navi degli arabi soprattutto i comandanti hanno a disposizione paste dette anche maccheroni (da maccare, impastare) ottenute da semola di grano duro che cuociono in acqua di mare e mangiano condite con cacio e, spesso, con pepe. Anche la Pasta alla Norma continua ad avere bisogno degli arabi, che nel XV secolo introducono la melanzana, prima in Spagna e poi in Italia, sempre in Sicilia.
Nella lista dei primi piatti presenti sui menu italiani è il riso quello che si affianca quasi sempre alla pasta e, se è vero che la sua pianta proviene originariamente dal lontano oriente, è altrettanto vero che è per la prima volta coltivato in Sicilia sempre dagli arabi, anche se, per mangiarlo meglio con le mani, i siciliani lo trasformano in arancini e arancine. Federico II di Svevia (1194 – 1250), poi, ha nella sua corte itinerante una cucina che si ispira dichiaratemente ai testi arabi: il Taqwîm as-sihha (Tavole della salute), del medico di Baghdad Ibn Butlân, che descrive le caratteristiche dietetiche dei prodotti alimentari e il Minhâj al-bayân (Cammino dell’esposizione), di Ibn Jazla, che espone medicamenti, bevande e alimenti. Il gusto agrodolce, inoltre, presente in Italia soprattutto nella cucina rinascimentale, è un lascito di un influsso arabo filtrato dalla tradizione normanna e sveva.
È poi diffusa nel nostro Paese l’abitudine di terminare i pasti con un distillato, un liquore o un caffè. Sono gli alchimisti (parola d’origine araba) che, usando l’alambicco (altra parola araba) alla ricerca dell’anima o spirito dei liquidi, ottengono l’alcol (altro termine arabo), che poi rinforzano con l’aggiunta di erbe. Usando le tecniche distillatorie arabe si ottiene poi anche un liquore dal ginepro, che altri chiameranno gin. Sono sempre gli arabi che, con la loro rivoluzione agraria del IX secolo, portano i limoni in Sicilia, ma senza alcol, zucchero e limoni portati dagli arabi non avremmo neppure il limoncello. Quando gli arabi con Maometto sostituiscono l’alcol con il caffè non mancano di farcene dono e siamo noi che poi lo modifichiamo secondo i nostri gusti, creando il caffè italiano, l’espresso e il cappuccino.
Arriviamo infine al discusso kebab. Sembra che questa preparazione arrivi in Europa, più precisamente a Londra, nel 1966, e raggiunga in seguito la Germania e gli altri Paesi europei. Oggi in Italia il kebab è presente ovunque e già alcuni ristoranti, come è avvenuto per l’hamburger, lo propongono in una versione più raffinata. La tradizione turca si intreccia quindi con quella italiana utilizzando tagli di carne più pregiata e aggiungendo pane e condimenti. Quando al kebab, modificato per i gusti italiani, sarà dato un nuovo nome, si dimenticherà la sua origine araba, come è avvenuto per il gelato, la pasta, la melanzana, l’alcol, il caffè e altri cibi.
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Professore Emerito dell’Università degli Studi di Parma e docente nella Facoltà di Medicina Veterinaria dal 1953 al 2002