La quantità di pesce selvatico necessaria per soddisfare le esigenze del sistema delle acquacolture (cioè di pesci chiamati foraggio), in costante aumento, è molto più elevata di quanto stimato finora, e questo provoca gravi danni ambientali, oltreché squilibri e disuguaglianze ingiustificabili nei paesi più poveri. Lo dimostra uno studio pubblicato su Science Advances, in un numero tutto dedicato alle acquacolture, dai ricercatori del Rosenstiel School of Marine, Atmospheric, and Earth Science dell’Università di Miami insieme a quelli di Oceana, il più grande network mondiale per la protezione degli oceani e della biodiversità marina. In esso, infatti, è stato rivisto tutto il sistema con il quale, fino a oggi, è stato calcolato il rapporto tra pesci-foraggio e pesci allevati prodotti, cioè la stima dell’efficienza della filiera. In base a quanto osservato, il parametro sarebbe da rivedere in toto.
Lo studio sui pesce – foraggio
Al centro dell’attenzione i ricercatori hanno posto il cosiddetto ratio fish-in:fish-out o (FI:FO) cioè il rapporto matematico tra il pesce-foraggio, introdotto in forma di farine e oli, e quello più pregiato che ne esce. In base a calcoli ampiamente accettati, tale rapporto sarebbe di 0,28 (più o meno un terzo di pesce utilizzato per due terzi di pesce prodotto), e il tutto sarebbe quindi conveniente e razionale.
Se non fosse che, in ciò che è stato sempre inserito nei calcoli, qualcosa non torna. Gli autori hanno infatti scovato una serie di veri e propri trucchi contabili, per così dire, quali, per esempio, quello di calcolare la percentuale di pesci-foraggio sul totale dei mangimi di tutte le acquacolture, nelle quali rientrano anche i pesci vegetariani e quelli che si alimentano di crostacei e di altri organismi di vario tipo. Se rapportato alla totalità degli allevamenti, il quantitativo di pesci foraggio diventa una percentuale molto bassa.
I veri consumi
Per correggere i conti in modo più fedele alla realtà, hanno quindi valutato i quantitativi di pesci foraggio come percentuali dei mangimi destinati alle acquacolture di pesci carnivori, che sono i soli che mangiano altri pesci. Inoltre, hanno tenuto conto dei pesci ributtati a mare, che spesso non sopravvivono, e dell’utilizzo degli scarti di lavorazione che, invece, sono utilizzati. Con questi aggiustamenti, il FI:FO reale sarebbe superiore di una percentuale che, a seconda delle specie e delle condizioni, va dal 27 al 307%, perché passerebbe appunto dallo 0,28 allo 0,36-1,15. Se poi si escludono i pesci selvatici scartati e si applicano ulteriori correzioni relative ai soli pesci carnivori, il FI:FO sale ulteriormente, arrivando a 0,57-1,78.
Per le specie carnivore, in definitiva, la quantità di pesci-foraggio fornita sarebbe circa il doppio di quella che viene prodotta. Pertanto, tutte le valutazioni fatte sui quantitativi di pescato che si possono destinare alle acquacolture senza arrecare danni ai banchi selvatici sarebbero ampiamente sbagliate, e le stime sottovalutate. E la situazione sarebbe in costante peggioramento, soprattutto a causa dell’aumento esponenziale della richiesta di salmoni e altri pesci pregiati.
La situazione dei salmoni
I salmoni allevati rappresentano ormai il 70% del totale e, a causa delle condizioni di allevamento, le loro carni sono sempre più povere di acidi grassi omega tre e degli altri acidi grassi per i quali sono tanto desiderati. Per tale motivo, i loro mangimi sono addizionati di oli di pesce. I quali provengono dai pesci-foraggio: circa il 60% dell’olio di pesce prodotto dai pesci più piccoli è destinato agli allevamenti di salmoni. E ciò spiega perché la domanda di pesci anche selvatici non conosca freni. A questo si aggiunge il fatto che, a causa del riscaldamento delle acque, pesci come le acciughe e le sardine hanno quantità inferiori di acidi grassi rispetto al passato (a loro ne servono di meno, perché fa meno freddo).
La conseguenza, inevitabile, è che se ne devono pescare di più, e si deve ampliare il numero di specie destinate a questi scopi (ultimamente, per esempio, si pescano molti sgombri). Questo circolo vizioso, unito al fatto che gli incidenti come la fuga di 5mila salmoni carichi di antibiotici e anti-pidocchi di mare, avvenuta ai primi di ottobre in Irlanda del Nord, sono sempre più frequenti, spiega perché una delle autrici del lavoro, Kathryn Matthews, ricercatore capo di Oceana, abbia detto: “L’industria del salmone non è un sistema di produzione di cibo. È un sistema di diminuzione di cibo”. E non va meglio se si prende in considerazione la sostituzione dei pesci-foraggio con farine vegetali, perché queste ultime alimentano il sistema delle colture intensive: tra il 1997 e il 2017, la quantità di farine vegetali destinata alle acquacolture è aumentata di cinque volte.
Un sistema insostenibile
Infine, la pesca dei piccoli pesci selvatici avviene soprattutto in aree quali le acque dell’America Latina o dell’Africa Occidentale. Ma quei pesci sono sottratti alle economie locali, che sono quasi sempre di sussistenza, e questo amplifica la povertà e le disuguaglianze.
Tutto ciò, insieme ad altri studi presenti sullo stesso numero, dimostra la necessità di rivedere radicalmente tutta la filiera, a cominciare dalla composizione dei mangimi per arrivare fino al consumatore, che dovrebbe essere informato dei costi ambientali del salmone che ordina al ristorante, in modo da poter fare scelte molto più consapevoli, passando per tutte le tappe della produzione, della vendita e del confezionamento e dell’etichettatura.
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Giornalista scientifica