Negli Stati Uniti è obeso il 17% dei bambini e ragazzi. Eppure, almeno dal 2006, è dimostrato che l’esposizione dei più piccoli alle pubblicità di cibo pieno di sale, di grassi e zuccheri ha una relazione molto stretta con l’andamento del peso. Lo stabiliva, allora, il primo rapporto ufficiale dell’autorevole Institute of Medicine, e lo dimostravano, negli anni seguenti, molti studi. Uno tra gli ultimi, pubblicato su Appetite, mostra che più i bambini in età prescolare vedono pubblicità di cereali più ne mangiano, e uno simile, pubblicato su Public Health Nutrition, dello scorso mese di aprile, rivela il nesso tra pubblicità e consumo di junk food, sempre in bambini molto piccoli. E lo stesso vale per i ragazzi un po’ più grandi. È necessario quindi fare molto di più, anche perché la storia e i fatti dimostrano che quanto si è fatto finora non è sufficiente.
Questo il senso di un lungo articolo pubblicato su JAMA in cui la rivista fa il punto sulle politiche di contenimento degli spot e sui codici di autodisciplina delle aziende e nota che, sebbene qualche piccolo miglioramento ci sia stato, la situazione è ben lungi dall’essere sotto controllo.
Una delle prime tappe del disastro, secondo la rivista, risale addirittura al 1981; in quell’anno infatti, sotto l’amministrazione Reagan, e quindi in pieno liberismo e sotto l’influsso delle già potentissime lobby, la Federal Trade Commission abbandona ogni proposito di limitare la pubblicità di alimenti rivolta ai bambini. Bisognerà attendere fino al 1990 per vedere il Children’s Television Act, che però non riguarda esplicitamente il cibo ma solo la pubblicità in generale per i bambini con meno di 12 anni.
Passano quindi altri dieci anni, arriva la campagna Let’s Move, promossa da Michelle Obama nel 2010, e nel 2011 lo Interagency Working Group (IWG) on Food Market to Children, organismo federale nel quale siedono la FDA, il Department of Agriculture e i Centers for Diseases and Control propongono alle aziende alimentari una sorta di decalogo con le dieci classi di alimenti a rischio e più pubblicizzati, tra i quali i cerali, gli snack, i dolci e le bevande zuccherate. Sembra il primo passo di un cambiamento radicale di approccio alla questione, ma il documento resta a livello di bozza dal punto di vista formale, e a quello di libro dei sogni da quello sostanziale: non se ne fa quasi niente, tra lo sconcerto di molti accademici, più che delusi dall’esito delle trattative.
Le aziende (tra le quali la Coca Cola, la PepsiCo, McDonald’s, Burger King e altri 14 colossi del settore) fanno allora la loro mossa, e cioè varano la Children’s Food and Beverage Advertising Initiative o CFBI, nella quale si impegnano a limitare la pubblicità o, quantomeno, a spingere verso alimenti sani su qualunque mezzo, e cioè TV, media digitali, cellulari, radio, pubblicazioni, web ma anche nelle scuole. Anche in questo caso, poco più che un elenco di buone intenzioni, sottolinea JAMA, per diversi motivi: tutto è limitato agli under 18, ma per accedere a programmi, app, giochi, è sufficiente dire di averli già compiuti – e in cambio bisogna spesso fornire la propria email, dove le aziende mandano tutta la pubblicità che vogliono. Non solo: gli standard nutrizionali proposti dalle aziende sono diversi per ogni tipo di alimento e molto spesso assai lontani da quelli indicati dall’IWG: per esempio, le minestre in versione CFBAI hanno circa il doppio di sale rispetto ai valori indiati dall’IWG per qualunque cibo. E ancora: il limite di concentrazione degli spot rivolti ai bambini, per il CFBI, è del 35% del tempo dei programmi televisivi dedicati ai bambini. Ma in questo conteggio non rientra la pubblicità inserita nei programmi rivolti alle famiglie, che molto spesso sono visti anche da bambini e ragazzi. Infine – per restare solo alle pecche più macroscopiche – anche i ragazzi con più di 12 anni andrebbero tutelati, e questo non è previsto dal CFBAI.
Secondo una ricerca presentata al meeting annuale dell’American Public Health Association, nel 2015 i bambini di età compresa tra i 2 e gli 11 anni vedevano più di 10 spot di alimenti al giorno, e 8 di questi erano di cibi ricchi in zuccheri, sale, e grassi saturi. Nel 2009 la percentuale era 10 su dieci: c’è stato, dunque, un apparente miglioramento, anche se di modestissima entità. E non a caso, secondo un altro studio, questa volta del Rudd Center, uno dei più attivi nel settore, ha mostrato che tra il 2007 e il 2015, anche se le pubblicità di alcuni prodotti come gli snack, i dolci, i succhi di frutta sono diminuiti, quella di caramelle e simili è cresciuta del 79%, quella delle soda del 60%, quella dei fast food del 15%.
È evidente che così non si può andare avanti, anche perché non si otterrà nessun risultato, ha concluso JAMA, e i piccoli obesi di oggi saranno, con ogni probabilità, gli adulti obesi di domani, che andranno ad aggiungersi a tutti gli altri. D’altro canto paesi come la Norvegia, il Messico, l’Irlanda e il Cile hanno introdotto normative molto severe, che vietano del tutto la pubblicità di cibo rivolta ai bambini: si può fare, quando c’è la volontà politica. E i cittadini potrebbero anche ringraziare, nelle urne.
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Giornalista scientifica