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Small Plastic pellets. Micro plastic. air pollution.In Canada, a Montréal, nevica plastica. E quasi certamente in tutto il mondo succede la stessa cosa, visto che quando si va a controllare si trovano conferme della diffusione ubiquitaria dei più diversi polimeri, che derivano da una miriade di materiali. In questo caso, a certificare la presenza di micro e nanoplastiche in campioni di neve prelevati durante la primavera 2019 sono stati i ricercatori della McGill University, che hanno pubblicato su Environmental Pollution quanto scoperto. Gli autori hanno utilizzato un metodo sensibilissimo, messo a punto da loro stessi (una sorta di spettrometria di massa su scala nano, per di più verde, perché utilizza materiali riciclabili), che permette di identificare le particelle di plastica in quantità minime, fino ai picogrammi (cioè trilionesimi di grammo). In numerosi campioni sono stati trovati sia frammenti di polietilene, usatissimo anche nell’industria alimentare, che il polietilene glicol, una sua versione liquida, proveniente dagli antigelo utilizzati nelle automobili, tra le varie fonti.

Non va meglio se da ciò che arriva dal cielo si passa alle acque reflue. Un altro studio, uscito negli stessi giorni, ha messo infatti in luce un’altra realtà preoccupante: nelle acque di scarico si formano, proprio attorno ai micro e nanoframmenti plastici, colonie di batteri molto spesso resistenti agli antibiotici, che attraverso i corsi d’acqua e il mare possono diffondersi tra la popolazione. Anche perché di solito i sistemi di filtrazione dei depuratori non trattengono le particelle di plastica, e i metodi di sanificazione non sono sufficienti a uccidere tutti i batteri. 

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Le microplastiche nelle acque favoriscono l’aggregazione e la proliferazione di batteri resistenti agli antibiotici

Lo studio, pubblicato sul Journal of Hazardous Materials Letters dai ricercatori del New Jersey Institute of Technology, è partito da un esperimento. I ricercatori hanno prelevato vari campioni di fanghi in diversi impianti. Poi li hanno portati in laboratorio e vi hanno inoculato polistirene e polietilene, per controllare l’andamento della crescita dei batteri in presenza di micro- e nanoparticelle di plastica. Il risultato è stato molto chiaro: i fanghi con le plastiche avevano una concentrazione fino a 30 volte superiore dei geni associati alla resistenza agli antibiotici sulfamidici rispetto a quelli non trattati. Quando hanno provato ad aggiungere l’antibiotico sulfametossazolo, la resistenza, in presenza di plastica, è risultata aumentata di altre 4,5 volte. Ciò accade perché le particelle funzionano da aggregatori di batteri e ne favoriscono lo sviluppo, soprattutto di alcune specie (otto, in particolare, sono risultate essere le più presenti) e soprattutto grazie ai biofilm protettivi che si formano.

Per fortuna, negli stessi giorni, è stata pubblicata anche una notizia che autorizza a sperare in un futuro con meno plastica nell’ambiente. I ricercatori dell’Ames Laboratory del Dipartimento dell’Energia statunitense e della locale Clemson University hanno infatti messo a punto un sistema tutto meccanico per riciclare i polimeri. Come riferito sul Journal of New Chemistry, si tratta di un metodo che sfrutta dei cuscinetti a sfera e che può essere utilizzato senza bisogno di alte temperature perché al massimo arriva a 50°C, contro i 325°C di solito necessari per depolimerizzare le plastiche. In questo caso sono state fatte prove con il polistirene, ed è stato dimostrato che la frizione meccanica esercitata in presenza di ossigeno, ma senza solventi, è sufficiente a disaggregare il polimero e a fornire componenti da riciclare senza bisogno di grandi quantità di energia o di sostanze chimiche a loro volta dannose.

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