Che cosa succede quando le microplastiche e gli PFAS, le sostanze perfluoro alchiliche considerate contaminanti “perenni”, sono presenti contemporaneamente nell’acqua? Le ripercussioni sulla vita acquatica sono semplicemente quelle che derivano da ciascuna delle sostanze presenti oppure c’è una sinergia? La domanda è molto importante, perché nella realtà accade quasi sempre che le microplastiche e gli PFAS si trovino insieme: i secondi sono spesso usati nella realizzazione delle prime, e sono rilasciati da queste ultime, soprattutto quando inizia l’effetto degli agenti ambientali.
Cercare microplastiche e PFAS
Tuttavia, a causa della difficoltà di condurre studi su più contaminanti in contemporanea, finora non ha avuto risposte chiare e dettagliate. A colmare la lacuna provvede almeno in parte ora una ricerca che potrebbe rappresentare un modello, e che potrebbe avere conseguenze anche sugli esseri umani, ai quali le acque contaminate spesso arrivano.
La pulce d’acqua come animale sentinella
Quando si deve studiare la situazione di uno specchio d’acqua dolce o di un fiume, a volte si ricorre a un tipo specifico di creatura marina: la pulce d’acqua (Daphnia magna). Questi minuscoli crostacei, infatti, tendono a incorporare tutto ciò che incontrano, sono facili da studiare e in più possono entrare in uno stato di quiescenza, che permette loro di sopravvivere in condizioni ambientali sfavorevoli, per poi tornare vitali quando l’ambiente è di nuovo positivo.
Partendo da queste caratteristiche, i ricercatori dell’Università di Birmingham, nel Regno Unito, ne hanno utilizzato di due tipi: alcune che non erano mai state esposte né a microplastiche né a PFAS, e altre che avevano vissuto in acque contaminate, in certi periodi della loro vita.
Come illustrato su Environmental Pollution, hanno esposto entrambi i tipi a microplastiche e PFAS – in particolare microplastiche di polietilene tereftalato (PET), perfluoroottano sulfonato (PFOS) e acido perfluoroottanoico (PFOA) – sia da soli che in miscele in concentrazioni e con frammenti simili a quelli che si trovano spesso nelle campionature delle acque, e hanno poi verificato gli effetti sull’intero ciclo vitale degli animali.
I risultati
L’esito è stato preoccupante, e peggiore rispetto alle previsioni, già negative. Le miscele, infatti, rallentano lo sviluppo sessuale, e l’accrescimento, diminuiscono la fertilità e causano aborti di nidiate, in misura più marcata nelle pulci d’acqua già esposte in passato agli stessi contaminanti. E, soprattutto, microplastiche e PFAS hanno un effetto sinergico e additivo in parametri fondamentali quali la crescita, la sopravvivenza e la riproduzione, e non si neutralizzano a vicenda in nessuno dei parametri controllati. I cambiamenti osservati, inoltre, sono sicuramente sostenuti da mutazioni genetiche, che saranno oggetto dei prossimi approfondimenti dello stesso gruppo.
Nel frattempo, però, bisognerebbe fare molto di più sia per studiare le coopresenze, sia per evitare che PFAS e microplastiche finiscano in acqua, come sottolinea uno degli autori, Mohamed Abdallah: “Gli attuali quadri normativi si concentrano sulla tossicità delle singole sostanze chimiche, per lo più utilizzando esposizioni acute, di breve durata. È cruciale studiare gli impatti combinati degli inquinanti sulla fauna selvatica durante tutto il loro ciclo di vita, per comprendere meglio il rischio in condizioni di vita reale. E tutto questo, a sua volta, deve orientare gli sforzi di conservazione e guidare la politica, affinché affronti nel modo migliore la crescente minaccia dei contaminanti emergenti come gli PFAS”.
Microplastiche dai campi
Un esempio di un ambito nel quale si dovrebbe intervenire con norme che obblighino al cambiamento è quello dei teli agricoli. Anche se non è percepita come importante, la pratica che prevede di “impacchettare” le piante per proteggerle dai parassiti e conservare l’umidità, nota anche come plasticoltura, è una fonte di enormi quantità di microplastiche, che finiscono inesorabilmente nei terreni. Lo conferma un altro studio, appena pubblicato su PNAS Nexus, che mostra come anche quando siano messe in atto le “best practices”, cioè si lavori con scrupolo, la dispersione è inevitabile. In quel caso, infatti, i ricercatori del Politecnico dell’Università della California di San Luis hanno verificato la situazione di 12 campi californiani, dopo che la plastica era stata rimossa per la stagione in cui non è utile: una “migliore pratica” per ridurre la dispersione.
Ciononostante, tutti i campi esaminati erano contaminati, e gli autori hanno trovato fino a 25 kg di detriti di macroplastiche per ettaro, pari al 3,4% della superficie del campo. Lo stesso è avvenuto con le microplastiche, presenti in concentrazioni direttamente proporzionali alle macroplastiche. Tra l’altro, paradossalmente, pratiche come il fatto di mettere e togliere le plastiche possono aumentare la quantità di microplastiche disperse.
Se si considera che nel mondo più di dieci milioni di ettari sono ormai dedicato alla plasticoltura, ben si capisce perché sia arrivato il momento di andare oltre. Secondo gli autori, in questo caso norme specifiche che permettano solo l’impiego di plastiche compostabili o biodegradabili potrebbero rappresentare un deciso passo in avanti, e andrebbero introdotte prima possibile.
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Giornalista scientifica
io mi domando spesso se la politica si stia preoccupando abbastanza, per cercare delle soluzioni al problema dell’inquinamento ambientale da residui di plastiche. ho la sensazione che la risposta sia negativa…