Il mare si trova in un pessimo stato di salute. E i pesci che lo abitano non stanno meglio. Lo confermano due studi usciti a pochi giorni di distanza, che mettono in evidenza la lacunosità delle conoscenze sul reale stato del mare e dei pesci in particolare e, di conseguenza, gli errori nelle stime delle specie a rischio di estinzione e di quelle che è possibile continuare a pescare.
Le specie di pesci a rischio estinzione
Il primo studio, pubblicato il 29 agosto su PloS Biology dai ricercatori dell’Unità di ricerca francese Marbec suggerisce che il numero di specie a rischio di estinzione sia cinque volte maggiore di quello stimato, e cioè pari al 12,7% contro il 2,5% valutato dall’International Union for the Conservation of Nature (IUCN). A questo ordine di grandezza porterebbe una stima più completa delle precedenti, che include circa 5.000 specie non considerate finora a causa dell’assenza o della carenza di dati attendibili. Il database dell’IUCN contiene circa 150.000 specie, alle quali attribuisce un certo rischio. Tuttavia, per quanto riguarda i pesci, il 38% delle specie (cioè 4.992) non è stato studiato adeguatamente e i dati sono insufficienti. Non è pertanto possibile attribuire a queste specie una valutazione del rischio di estinzione.
I nuovi calcoli degli scienziati
I ricercatori hanno lavorato sulle specie con dati insufficienti avvalendosi di un sistema di intelligenza artificiale. Hanno istruito l’AI con informazioni dedotte da altre specie, sia biologiche (sulla tassonomia, sulle abitudini e sulle caratteristiche dei pesci), sia climatico-ambientali, ma anche sulla pesca e sulle abitudini umane. Le specie a rischio sono così passate da 334 a 1.671, mentre quelle non a rischio da 7.869 a 10.451. Il programma ha permesso anche di definire le caratteristiche delle specie maggiormente minacciate: si tratta di pesci di taglia medio-grande, che si riproducono con lentezza, occupano areali limitati e vivono in acque poco profonde, come quelle autoctone del mar della Cina meridionale, del mare delle Filippine e di quello di Celebes, di zone dell’Australia e del Nord America. In queste aree, così come nelle isole del Pacifico meridionale e nelle zone polari e subpolari, particolarmente sconosciute e vulnerabili, sarebbe urgente intensificare gli studi.
Troppo ottimistiche le stime sugli stock di pesci
Il secondo studio è un atto di accusa a organismi, tra cui l’UE, colpevoli di aver ignorato gli allarmi degli scienziati e di aver elaborato stime poco realistiche sulle quote di pesca. Se ne parla in un articolo pubblicato lo scorso 22 agosto su Science, nel quale due tra i più autorevoli esperti del mondo, Rainer Froese del GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research e Daniel Pauly della University of British Columbia hanno analizzato le stime ufficiali su 230 stock ittici, concludendo che sono sempre state troppo ottimistiche e non basate su criteri moderni e completi. Le sopravvalutazioni hanno portato anche ai cosiddetti “recuperi fantasma”, cioè a calcoli errati secondo i quali gli stock avrebbero recuperato, mentre in realtà non è avvenuto. Quelle indicazioni erronee, però, hanno determinato la ripresa della pesca e gli stock si sono ulteriormente impoveriti.
Neppure la FAO è esente da critiche. Sempre secondo i due esperti, infatti, un terzo degli stock classificati come massimamente sostenibili non lo sarebbero affatto e, anzi, avrebbero già varcato la soglia delle specie pescate oltre le possibilità di rigenerazione. Per questo, la quota delle specie collassate, che cioè sono ormai presenti con un numero di esemplari un decimo di quello originario, sarebbe più alta dell’85% rispetto alle stime ufficiali.
Le soluzioni proposte dai ricercatori
Froese e Pauly, però, vogliono dare anche un contributo costruttivo alla soluzione del problema. A tale scopo si chiedono come mai ci siano errori di valutazione così grossolani anche da parte di organismi che non hanno interessi commerciali nella pesca. Secondo loro, questi errori si devono alla complessità e alla quantità dei parametri considerati (una quarantina). Un numero così elevato di indicatori genera confusione e determina distorsioni ed errori statistici. Per questo, secondo i due biologi, sarebbe meglio utilizzare metodi più semplici, basati su pochi parametri fondamentali, che tengano sempre presente la situazione marina nel complesso, in un’ottica di ecosistema. Inoltre, le stime dovrebbero essere plasmate in base al principio di precauzione: in caso di dubbio, meglio fissare limiti più restrittivi, con un’attenzione particolare ai pesci alla base della catena alimentare, come le sardine, le acciughe, il krill e le aringhe.
© Riproduzione riservata; Foto: Depositphotos, AdobeStock
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica
Di certo c’è l’overvifishing,l’uso del seismic testing che entra nelle profondità marine perforando con altissima pressione il fondale per la ricerca di petrolio e chi ne paga le conseguenze sono i mammiferi marini come le megattere che si riposano nei fondali,delfini, in poche parole tutti i grandi pesci che sono a grave rischio di estinzione, poi le reti a strascico che sradicano e desertificano la flora marina mentre fanno pesca illegale con le famigerate dark-vessels invisibili ai sistemi di sorveglianza,inquinanti riversati a tonnellate ogni ora da scarichi abusivi, fiumi che sono ormai pieni di scarichi industriali,che stanno acidificando in modo abnorme gli oceani riscaldandoli anche per l’inabissamento delle correnti marine (amoc), il krill è considerato la nuova frontiera di pesca abusiva, privando ai cetacei la fonte di sostenimento,poi lo sbiancamento dei coralli la dice lunga di quanto sia stato fatto per la impotenza di una moratoria internazionale che impedisca lo sfruttamento degli oceani e l’inquinamento che sta stravolgendo il loro delicato equilibrio e il loro ecosistema già compromesso da decenni di ipersfruttamento .