Contrastare il primato assoluto delle palme da olio in paesi come l’Indonesia si può: investendo sui piccoli agricoltori locali che, se messi nelle giuste condizioni, dicono addio alla monocoltura stretta e iniziano a coltivare altre piante, contribuendo così a ripristinare la biodiversità e a rafforzare la propria indipendenza economica dalle multinazionali. È quanto si deduce dai risultati di uno studio pubblicato sul Journal of Environmental Economics and Management e condotto dai ricercatori dell’Università di Gottinga, in Germania, in collaborazione con quelli della locale Università di Jambi, che insieme hanno costituito un centro di ricerca interdisciplinare chiamato EFForTS (da Ecological and Socioeconomic Functions of Tropical Lowland Rainforest Transformation Systems).
EFForTs ha coinvolto per questa prova circa 800 piccoli coltivatori, perché di solito sono quelli che hanno minore accesso alle informazioni sulle innovazioni e anche quelli che hanno minori possibilità (economiche, logistiche e così via) di acquistare sementi di qualità in modo autonomo. Li ha suddivisi in tre gruppi: uno di controllo, che ha continuato con le pratiche in atto; uno “trattato” con materiale informativo, e cioè un manuale e un video che spiegavano i vantaggi dell’introduzione di altre piante accanto alle palme da olio; e un terzo gruppo al quale, oltre alle informazioni, sono state distribuite, in modo del tutto gratuito, le sementi di sei piante da frutta, da legno e da lattice autoctone e scelte dopo aver coinvolto le popolazioni locali in gruppi di discussione e ascolto.
Il risultato è stato positivo, perché ha mostrato che un piccolo gruppo di coltivatori ha piantato le nuove piante in grandi quantità all’interno. E anche se non sostituiscono le palme da olio, contribuiscono ad aumentare significativamente la biodiversità, che è uno dei veri talloni d’Achille delle piantagioni. Inoltre aiutano a tenere in vita le specie autoctone, che contrastano più efficacemente gli effetti del cambiamento climatico.
Le due misure sono poi risultate equivalenti dal punto di vista del rapporto tra costi iniziali ed efficacia dell’intervento, anche se quello più strutturato, che prevede l’omaggio delle sementi, piace di più, com’è ovvio. Inoltre, contano anche le preferenze personali: l’introduzione ha maggiore probabilità di successo e le nuove piante vivono più a lungo quando al contadino sono assegnate sementi che aveva dichiarato di preferire.
Le piantagioni di palme da olio ricoprono l’Indonesia e sono responsabili di un impoverimento drammatico della biodiversità in una delle zone tropicali originariamente più ricche di specie e quindi più importanti per tutto il pianeta, oltre che di problemi dati dall’impiego di fitofarmaci e fertilizzanti, dallo sfruttamento del lavoro di donne e bambini e così via. Coinvolgere gli agricoltori locali con l’obiettivo di ripristinare almeno in parte la biodiversità (che, va detto, non è stata misurata nel presente studio), soprattutto se piccoli e quindi più vulnerabili (anche se rappresentano il 40% del totale dei coltivatori di palme), sembra essere una delle poche strade percorribili con la speranza di avere qualche risultato, in paesi che fanno ben poco, a livello governativo, per raggiungere questo scopo.
© Riproduzione riservata
Giornalista scientifica