Per sapere se l’orata e il branzino di allevamento esposti nel banco frigo del supermercato sono made in Italy basta leggere l’indicazione del Paese di provenienza in etichetta. Su alcune confezioni ci sono anche notizie sul metodo di allevamento e di dieta. Il pesce nostrano ha un aspetto pressoché identico a quello importato, ma costa quasi il doppio. Le pezzature da 4-600 g si aggirano sugli 14-15 €/kg, quello importato da Paesi come: Grecia, Spagna, Croazia, Malta o Turchia non supera gli 8-10 €/kg. Capire il perché di tanta differenza non è scontato. Siamo di fronte al tipico caso in cui un prodotto italiano pur non essendo DOP o IGP (al momento non esistono allevamenti di branzini ed orate in Italia con queste certificazioni), viene percepito dal consumatore come più pregiato rispetto a quello importato e, dunque, migliore solo per via dell’origine.
“Il consumatore è confuso – sottolinea Valentina Tepedino, medico veterinario specializzato nel settore ittico e direttore di Eurofishmarket – poiché, nonostante l’importante crescita del settore dell’acquacoltura (nel nostro Paese i consumi hanno superato il 50% del pescato catturato in mare), non è chiaro il significato della parola “qualità”, termine spesso abusato per promuovere un prodotto, senza che in realtà ci siano delle motivazioni oggettive. Premesso che la qualità igienico-sanitaria è qualcosa di imprescindibile per la commercializzazione e deve essere misurabile e controllata, nulla risulta definito sul fronte della qualità generale, intesa come tipo di allevamento e valore organolettico.”
Probabilmente il pesce “made in Italy” viene percepito superiore perché si pensa che venga allevato in modo più rigoroso e attento a determinati parametri rispetto a quello degli altri Paesi europei ed extra-europei. Inoltre molti consumatori attribuiscono grande significato alla reputazione delle zone di produzione, perché le conoscono come luoghi rinomati per la qualità delle acque come quelle delle aziende ittiche che operano in Liguria nel Golfo del Tigullio o nel Golfo di Orosei in Sardegna.
“La scelta del sito è importante – precisa Davide Orsi presidente di Aqua de Mâ una delle aziende ittiche più attive sul mercato – in genere in Italia le gabbie vengono localizzate in acque profonde, permettendo ai pesci una maggiore capacità di movimento, una migliore ossigenazione e un buon ricambio di acqua. Nel nostro caso le gabbie sono a 40 metri dove è assicurata una circolazione ottimale per via delle correnti marine. La localizzazione in acque profonde è da preferire anche se c’è il problema delle mareggiate che possono distruggere una parte delle strutture, come è avvenuto in alcuni nostri allevamenti. Le gabbie nelle insenature, come avviene quasi sempre in Grecia, Turchia o Croazia, sono più protette, ma la circolazione di acqua è ridotta e i pesci si muovono meno.”
Un altro elemento da considerare è la velocità di crescita. Per arrivare a 400 g (pezzatura molto diffusa nei ristoranti) un’orata impiega 18-24 mesi (più o meno lo stesso tempo che impiega in mare aperto). Per la crescita si usano mangimi composti da farina e olio di pesce, mescolati a farine vegetali (nei primi mesi prevale la farina vegetale mentre da adulti quella di pesce). Il fattore di conversione è buono per cui a fronte di 1,3/1,4 kg di mangime si ottiene un’orata da 1,0 kg.
Anche la densità svolge un ruolo decisivo. Una gabbia con un diametro di 25 metri può contenere da 140 a 250 mila pesci tenuto conto che una densità maggiore limita la movimentazione e contribuisce ad incrementare lo stress, facilitando eventuali malattie. È importante tenere presente che un’orata allevata nel migliore dei modi (dieta bilanciata, densità bassa, grande movimento, ecc.) ha un aspetto più compatto e la carne contiene meno grasso intorno alle viscere. In Italia diversi allevamenti sono certificati come “antibiotic free”, vuol dire che devono rispettare un disciplinare ancora più stringente rispetto a quanto previsto dalla normativa, già è molto severa, e questa scelta sta portando ad un minore utilizzo di farmaci in acquacoltura.
“In Italia – continua Valentina Tepedino – non c’è una normativa che impone limiti massimi di densità e neppure riferimenti sulla dieta, per questo è difficile parlare di “acquacoltura italiana” come sistema di qualità e diventa anche difficile fare paragoni con altri Paesi europei o extra europei. È più corretto parlare delle singole realtà produttive, come quella già citata di Aqua de Mâ. Questa mancanza di regole e di standard confonde e a volte imbroglia il consumatore creando una concorrenza sleale nei confronti dei produttori più rigorosi. Basti pensare che molte catene di supermercati si sono create un proprio capitolato di qualità autoreferenziato. Certo i capitolati servono, ma non aiutano le persone che acquistano a capire quanto quel branzino, quell’orata o quella trota siano migliori rispetto alla concorrenza. Mancano riferimenti in etichetta sul rapporto omega 3/omega 6, sull’indice di conversione, sulla densità dei pesci – continua Valentina Tepedino –. Queste informazioni non compaiono sui siti dei produttori, e neppure sul QR Code. Persino il numero verde non le fornisce. Per potere dare un significato alla parola “qualità” bisogna adottare standard di riferimento e individuare parametri misurabili e controllabili ”.
A prescindere dalla reale qualità dei sistemi di allevamento, orate e branzini prodotti in Italia hanno in generale un valore commerciale più alto rispetto a quelli di altri Paesi, non foss’altro per i costi della manodopera. Un altro elemento che desta perplessità riguarda i ristoratori. Se in pescheria e al supermercato si può scegliere cosa comprare grazie alle – seppur poco esaustive – indicazioni riportate in etichetta, lo stesso non accade al ristorante perché sul menu non è obbligatorio fornire dettagli sull’origine del pesce e sulla qualità. Quando scorrendo il menu arriva la voce “orata” o “branzino” affiancata dal prezzo (15 e 20 euro) non ci sono elementi per capire se si tratta di un pesce di allevamento greco, magari comprato in offerta a 4-5 euro al kg, oppure di un’orata italiana con caratteristiche organolettiche migliori pagata quasi il doppio, oppure (caso molto raro) di un’orata pescata in mare pagata il triplo.
Certo, si possono chiedere chiarimenti al cameriere, che in genere non sa rispondere. Si tratta di scarsa professionalità o di poca trasparenza del gestore? Perché sul menu deve essere indicato quando il pesce è surgelato, mentre è consentito sorvolare sull’origine del pesce e sul tipo di pesca? La verità è che i ristoranti non sono soggetti alle regole valide per i supermercati e l’avventore paga spesso a caro un prodotto di mediocre qualità.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari collaborando per 30 anni con diverse testate giornalistiche (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Largo consumo,La Gola, Il mondo, Bargiornale, Mark-Up, Focus, La nuova ecologia, Oggi). Ha collaborato con il programma Rai Mi manda Lubrano di Rai 3 realizzando 50 test comparativi e al programma settimanale di RaiNews 24 Consumi & consumi.
in genere evito di comprare prodotti allevati, non riponendo in tali attività la fiducia necessaria.
Un branzino o un’orata di 400g al ristorante a 15-20 euro?
Può solo essere allevata, non serve chiedere, anche se servirebbe saperlo per tutti gli altri prodotti ittici serviti al ristorante.
Ma un’orata allevata greca costa la metà di un’orata allevata in Italia e ha un sapore diverso.
Gentile La Pira, sono sincero, io dal sapore non distinguo se un’orata è di allevamento italiano o greco. Lo dico perchè ho acquistato e consumato entrambi i prodotti ma forse è un mio limite di sensibilità organolettica.
Distinguo invece se un’orata è di allevamanto o selvaggia.
Quelle di allevamento greco sono in genere molto più grasse. Ma non essendo un prodotto industriale è difficile fare discorsi in assoluto