Che cosa pensa il consumatore medio dell’olio di palma? Preferisce che non sia presente o accetta che ci sia, ma vorrebbe che fosse ottenuto in modo sostenibile? Queste le principali domande che hanno motivato uno studio condotto dai ricercatori dell’Università tedesca di Gottinga e finanziato da una fondazione per la ricerca pubblica del governo tedesco, l’Associazione tedesca per la ricerca, che ha intervistato oltre 1.200 persone, ricavandone un quadro piuttosto complesso, in cui emerge soprattutto la parzialità delle conoscenze, che rischia di portare a valutazioni errate.
Come riportato su Sustainable Production and Consumption, infatti, l’associazione più forte con il termine ‘olio di palma’ è con la perdita di foresta pluviale, indicata dal 19% degli intervistati come prima cosa che viene in mente, dalla nocività per l’ambiente (9%). Molti, poi, citano le condizioni di sfruttamento dei lavoratori, nonché i rischi per la salute. Pochi, però, ricordano che uno degli utilizzi principali è quello per i biocarburanti, cui è destinato, per esempio, il 45% dell’olio di palma sul mercato europeo. I ricercatori hanno poi voluto verificare la solidità delle convinzioni con un test, dando a un terzo dei partecipanti ulteriori informazioni sulla resa e sull’impronta ambientale, a un altro terzo notizie sul cosiddetto cambiamento indiretto della destinazione d’uso dei terreni (Iluc), su cui torneremo tra un attimo, mentre l’ultimo terzo è stato lasciato di controllo. Nonostante l’aggiunta di informazioni, la percezione non è cambiata molto, né è aumentata la fiducia nel marchio di sostenibilità Rspo (Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile), apposto ormai su circa il 20% dell’olio di palma prodotto nel mondo e accettato come attendibile dal WWF, dall’Unione internazionale per la conservazione della natura e da altri organismi. I partecipanti hanno continuato a manifestare tutta la propria ostilità verso l’olio di palma.
E ciò significa che c’è parecchia confusione e che i consumatori hanno quasi sempre un’idea molto parziale del complesso mondo degli oli vegetali. Come sottolinea FoodNavigator, è indubbio che l’olio di palma abbia un effetto negativo sull’ambiente: nonostante rappresenti circa il 10% delle colture, è responsabile del 37% della perdita di biodiversità complessiva che deriva dai principali quattro oli vegetali (gli altri sono quelli di colza, soia e girasole). Inoltre, può essere causa del già citato cambiamento indiretto della destinazione d’uso dei terreni, cioè la sua coltivazione può avvenire in maniera sostenibile su terreni degradati, che così vengono recuperati, abbattendo foreste o rimpiazzando altre coltivazioni, con diversi profili di sostenibilità. Ma non sempre è così: a volte, lo spostamento avviene verso zone già degradate, con caratteristiche che le rendono ottimali per avere produzioni con impatti decisamente minori rispetto a quelle classiche. L’olio così ottenuto può rispondere alle richieste del mercato senza apportare i ben noti danni, quindi non tutte le piantagioni sono uguali. Articolato, poi, il confronto con gli oli più simili. Per esempio, anche se l’impatto sulla biodiversità degli oli di colza e girasole è nettamente inferiore a quella dell’olio di palma, pari rispettivamente al 9% e al 4% del totale, si tratta di coltivazioni molto meno efficienti. Lo stesso vale per l’olio di soia. Per quanto riguarda quest’ultima, per avere una quantità di olio paragonabile a quello che si ottiene dalla palma, la soia richiede una quantità di terreno che è sei volte tanto. E un altro olio usato per sostituire quello di palma, quello di cocco, meno utilizzato, minaccia direttamente 18,3 specie ogni milioni di tonnellate di prodotto, contro le 3,8 dell’olio di palma.
Inoltre, c’è una scarsa conoscenza della certificazione RSPO, che non sembra essere rilevante, per quanto riguarda l’orientamento dei consumatori. Falsata anche la percezione delle zone a rischio maggiore: anche se nella realtà la peggiore è tutta l’area che comprende Indonesia e Malesia, i partecipanti hanno indicato il Brasile come secondo produttore mondiale, così come numerosi Paesi che non ne producono affatto come l’Italia, la Cina, il Marocco, la Spagna e l’Australia. Confrontando la cartina reale con quella dei Paesi che hanno indicato i partecipanti, le differenze sono enormi. Infine, interessante il prodotto che associano principalmente all’olio di palma, la Nutella, unico prodotto a marchio, che precede di molte lunghezze il cioccolato in generale, la margarina o i piatti pronti. Tutti i tedeschi sanno che la Nutella è piena di olio di palma e tra le voci che preoccupano di più a livello sociale, anche in questo caso con una netta prevalenza, ci sono i possibili danni alla salute.
Non è facile spiegare al grande pubblico, che tende quasi sempre a polarizzare le opinioni, un sistema così complesso e articolato come quello degli oli vegetali, che non prevede soluzioni facili come la totale eliminazione dell’olio di palma a prescindere dalle modalità di produzione, ma probabilmente indagini come queste aiutano a capire dove focalizzare gli sforzi, e che cosa è meglio evitare nella comunicazione perché inutile, quando non controproducente.
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Giornalista scientifica
A proposito dell’OLIO DI PALMA, COCCO e similari non li uso perchè fanno troppi danni in tutti i sensi. Come esempio: per me FERRERO che si rifiuta di eliminarli, per me non esiste più: La nutella non l’ho mai mangiata in vita mia! Quando la priorità è fare soldi bisogna stare molto attenti!
Grazie per le informazioni che ci date.
Antonella