Il Fatto Alimentare, nel corso degli anni, ha parlato spesso di nutrizionisti, anche con botta e risposta tra professionisti del settore, ma sempre concentrandosi sulla domanda “chi può fare il nutrizionista?”. Poco è stato detto, invece, sui pazienti, sulle loro esigenze e su come devono essere seguiti durante la dieta. Sono questi alcuni degli argomenti trattati nella lettera di due medici specializzati in medicina interna e nutrizione clinica, Maurizio Muscaritoli e Lorenzo M. Donini, che pubblichiamo qui di seguito.
Da molto tempo si discute nel mondo accademico, tra ordini professionali e sui media sulle competenze e i ruoli in ambito nutrizionale, su chi possa fregiarsi del titolo di nutrizionista e soprattutto su quali sono le conoscenze e le competenze che questo professionista dovrebbe avere. Riteniamo che questo non sia il corretto approccio al problema. Fermo restando che il termine ‘nutrizionista’ non ha una definizione precisa (e ciò è fonte di confusione e di rischio per i cittadini, sani e malati), il problema non è tanto e soltanto quello di trovare una collocazione al professionista, ma soprattutto quello di capire di cosa hanno bisogno i pazienti che lo interpellano.
Le persone che si rivolgono al nutrizionista sono in genere quelle che ritengono di doversi sottoporre a una dieta per risolvere un problema (sovrappeso, alterazioni del metabolismo lipidico o glicemico, intolleranze/allergie alimentari, inestetismi…) reale o presunto. Questi individui hanno quindi bisogno di:
- una diagnosi che tenga conto delle cause, sovente complesse e che comprendono spesso anche problematiche psicologiche e sociali, e di un quadro clinico caratterizzato da una composizione corporea alterata (non sempre associata a una variazione di peso) da: comportamento alimentare e stato psicologico spesso patologici; alterazioni funzionali e disabilità; complicanze e malattie concomitanti che possono riguardare tutti gli organi; un peggioramento della qualità di vita; ridotta tolleranza ai trattamenti della patologia di base; aumento della mortalità. Una diagnosi quindi che non può basarsi sulla semplice valutazione di singoli parametri (peso, ad esempio) o limitarsi a esplorare una singola dimensione (composizione corporea, ad esempio);
- una prescrizione terapeutica (counseling dietetico, dietoterapia, ricorso a supplementi nutrizionali, nutrizione artificiale) che deve indicare procedure e modalità di somministrazione, apporto di energia e nutrienti, e tempistiche, tenendo conto del quadro clinico-psicologico-funzionale del paziente, degli obiettivi da raggiungere, del contesto socio-culturale e di eventuali problematiche etiche;
- elaborazione ed esecuzione dell’intervento terapeutico così articolate: trasformazione della prescrizione nutrizionale in un piano alimentare, che dovrà essere adeguato ad abitudini, vincoli etici o religiosi e gusti alimentari e comprendere il monitoraggio del cibo assunto. In caso di persone con disturbi del comportamento alimentare, non deve mancare la gestione del pasto assistito;
- una valutazione che dovrà tener conto della complessità del quadro clinico-psicologico-funzionale analizzando l’impatto che l’intervento ha avuto su di esso.
Questo percorso è quello che caratterizza quel grande capitolo della medicina che è la nutrizione clinica. Questa disciplina si interessa di valutare, prevenire, diagnosticare e curare la malnutrizione (per eccesso, per difetto e/o selettiva) e le alterazioni metaboliche nel malato, in gruppi di malati e nell’individuo a rischio nutrizionale. È questo, a nostro avviso, un iter obbligatorio in tutti i pazienti che chiedono aiuto alla nutrizione clinica. Vale la pena di osservare, infatti, che anche il sovrappeso nasconde, molto spesso, non solo alterazioni dello stato di nutrizione (carenze e/o una franca obesità), ma anche altre patologie come la steatosi epatica e la steatoepatite non alcoliche, l’intolleranza glucidica (il cosiddetto ‘prediabete’), l’ipertensione, nonché un disagio psicologico che necessitano di un’attenta valutazione.
Un altro aspetto della questione è quello della prescrizione di interventi nutrizionali in persone sane. Sia perché dove non c’è un’indicazione clinica sarebbe più corretto limitarsi a indicazioni su un corretto stile di vita, piuttosto che prescrivere interventi che rischiano di medicalizzare persone che non ne hanno necessità, favorendo un’attenzione eccessiva verso l’alimentazione (ortoressia). Sia perché lo stato di ‘buona salute’ (come stato di benessere fisico, mentale e sociale) e la sua determinazione richiedono una valutazione multidimensionale che solo il medico può fare, per definire tutti i diversi fattori che possono influenzarlo.
Mentre non esistono dubbi sul fatto che i punti 1, 2 e 4 del percorso di cura descritto siano compiti del medico, sul punto 3 si affollano diverse figure professionali. L’intervento terapeutico non può avvenire, a nostro avviso, prescindendo dagli altri punti, e l’autonomia richiesta dai professionisti che se ne occupano, deve essere subordinata all’azione del medico. È la stessa autonomia, tanto per intenderci, dell’infermiere che prepara e somministra la terapia prescritta dal medico.
Rendere totalmente autonoma la fase di elaborazione ed esecuzione dell’intervento terapeutico non consente di considerare la complessità del quadro clinico-nutrizionale, soprattutto nelle forme iniziali o apparentemente meno gravi di malnutrizione, espone il paziente al rischio che venga sottovalutata la sua condizione clinica e che gli interventi nutrizionali proposti finiscano per peggiorare la situazione. In questo modo, per esempio possono verificarsi casi di: diete restrittive prescritte a persone sovrappeso (considerate sane a priori) senza che sia fatta una valutazione di eventuali eccessi di massa grassa o disturbi dell’immagine corporea; una gestione non attenta alla preservazione della massa magra, al grado di disabilità e alle carenze nutrizionali; diete inadeguate prescritte a persone con malattie del fegato o alterazioni della funzione renale non ancora diagnosticate, che spesso non presentano sintomi clinici chiari e definiti; eliminazione di alimenti specifici ai fini di una dieta ipocalorica in persone con osteoporosi e/o sarcopenia (carenza di massa muscolare); ‘diagnosi’ di intolleranze alimentari con metodi privi di qualsiasi validazione scientifica ed effettuate da operatori non medici; gestione ‘semplicemente’ dietetica dei disturbi dell’alimentazione.
Va infine ricordato che il titolo abilitante alla professione in ambito sanitario è esclusivamente la laurea magistrale (per medici, biologi, farmacisti) o di primo livello (per le professioni sanitarie). La scuola di specializzazione forma degli specialisti in ambiti specifici, ma non abilita alla professione sanitaria. I master universitari e i corsi di alta formazione da un lato, e i dottorati di ricerca dall’altro svolgono rispettivamente un ruolo di approfondimento delle conoscenze e di acquisizione di competenze nella ricerca.
Maurizio Muscaritoli (1) e Lorenzo M. Donini (2)
Note:
- Professore Ordinario di Medicina Interna presso l’Università di Roma “Sapienza”; Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Interna, Università di Roma “Sapienza”; Direttore della UOC di Medicina Interna e Nutrizione Clinica del Policlinico Umberto I di Roma; Presidente della Società Italiana di Nutrizione Clinica (SINuC)
- Professore Ordinario di Scienza dell’Alimentazione presso l’Università di Roma “Sapienza”; Responsabile della Unità di Ricerca di Scienza dell’Alimentazione e Nutrizione Umana; Presidente del Corso di Laurea di Dietistica Università di Roma “Sapienza”; Direttore della Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione Università di Roma “Sapienza”; Past-President della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA)
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Non ci sono dubbi sulla procedura necessaria per adottare una dieta, ma tanti sulla realtà del percorso offerto al cittadino. Sul cittadino sano nessuno interviene, in nessun modo, quando una persona capisce di essere sovrappeso o ha qualche sintomo digestivo all’apparenza trascurabile non viene preso in considerazione dalla medicina del territorio e non può altro che affidarsi al consiglio di amici o internet o da un dietista che con soli 35/50 euro può comunque indicarti una dieta equilibrata che nel 99% dei casi male non fa. Nel caso del paziente malato si parla di nutrizione clinica il cui percorso base è certamente quello descritto dai dottori Muscaritoli e Donnini, ma quante volte viene realmente effettuata questa procedura? E quale counseling viene offerto al malato? Nelle strutture pubbliche e private il malato nella maggioranza dei casi riceve un consiglio banale o tutt’al più un foglio con un’elenco di cibi da evitare. Questo accade anche se hai fatto un intervento a cuore aperto e hai una patologia cronica cardiovascolare. La dieta per la patologia e relativo counseling viene erogato solo nei reparti di malattie metaboliche in genere, dove ci sono medici specializzati in scienza dell’alimentazione e dietisti clinici. Che fa un povero paziente che vorrebbe mangiare meglio per avere meno rischi di recidive? Va dal dal nutrizionista senza per altro sapere cosa significhi esattamente quel titolo.
Complimenti per quanto scritto, una figura così delineata sarebbe auspicabile in molte specializzazioni, a partire dal medico di base.
Cari i miei professori, ma lo sapete o no, che nei 6 anni di medicina la nutrizione umana si studia poco o per niente (non lo dico io, lo ha detto l’ADI in un documento preparato per Expo 2015) ? Che si continua a confonderla con la biochimica o la fisiologia ? Che non si studiano gli alimenti, al punto che un’allergologa ha suggerito a una celiaca di mangiare il kamut, perché non è frumento ?
Prima rendiamo competenti tutti i medici in nutrizione umana e poi riparleremo del resto.