Le microplastiche, i frammenti del diametro di pochi millimetri che si generano dai materiali più vari, si accumulano nei sedimenti marini dove, protetti dagli strati che via via si sovrappongono, non sono neppure degradate nel tempo, come invece avviene sugli strati superficiali del fondo sabbioso, nelle colonne di acqua e attorno alle rocce. Tuttavia, finora i sedimenti non erano stati studiati a fondo e in modo esauriente, ma solo analizzati con ricerche sporadiche. Per questo i biologi marini dell’Università di Barcellona hanno organizzato una spedizione dedicata, con un’imbarcazione chiamata Sarmiento de Gamboa e dotata di tutto il necessario per effettuare correttamente i prelievi, trattare e conservare i campioni, e hanno così compiuto cinque diversi carotaggi poco prima del lockdown, nel 2019.
Come illustrato su Environmental Science & Technology, la zona scelta è stata quella del Mediterraneo occidentale e, nello specifico, quella davanti al delta del fiume Ebro, nei pressi di Taragona, perché gli sbocchi dei fiumi sono punti (anzi, hotspot) dove la corrente trascina, deposita e quindi concentra i materiali che arrivano dalle acque dolci.
Una volta portate in superficie, le “carote” di sedimenti, lunghe circa 37 centimetri, sono state tagliate in “fette” a distanza di un centimetro le une dalle altre, pulite, messe sottovuoto e conservate a 4°C, in modo che restassero com’erano fino all’arrivo al laboratorio di analisi dell’Università. I test, effettuati su particelle di plastica con diametro compreso tra 11 micron (al di sotto di tale diametro gli strumenti e i metodi sono meno affidabili, fino a quando si entra nel dominio delle nanoplastiche) e 1.000 micron (cioè un millimetro) hanno così permesso di tracciare una mappa cronologica che va dal 1965 circa a oggi (e sarebbe potuta essere ancora più estesa, risalendo fino agli anni cinquanta, se non vi fosse stata la necessità di sacrificare una piccola parte della carota per motivi sperimentali).
Nei campioni, i ricercatori hanno cercato due tipi di materiali: quelli provenienti essenzialmente dalle fibre di abiti e tessuti, costituiti da poliestere, e quelli riconducibili a tutti i tipi di packaging e di bottiglie, e quindi principalmente polietilene e polipropilene. Quello che è emerso ha confermato le previsioni più pessimistiche, perché la quantità di microplastiche è aumentata in modo lineare con quella prodotta e usata sulla Terra, con un andamento regolare dal 1965 a oggi (o, per meglio dire, al 2016, ultimo anno che permette di misurare le microplastiche al di sotto degli strati superficiali).
Inoltre, a partire dagli anni ottanta, e soprattutto negli ultimi vent’anni, c’è stata una vera e propria impennata, con valori triplicati per unità di sedimento. Ciò che preoccupa maggiormente, inoltre, è che, come si temeva, questi materiali restano pressoché intatti, protetti come sono dal limo che le avvolge dall’ossidazione dei raggi UV, dell’ossigeno e degli altri gas disciolti in acqua, e dall’azione meccanica delle correnti. Nell’oscurità e nell’immobilità di quella fanghiglia, non accade quasi nulla che possa degradare la plastica, che quindi potrebbe teoricamente essere conservata anche per millenni, salvo poi tornare in superficie per esempio a causa di un terremoto, o un’eruzione vulcanica sottomarina. Inoltre, la conservazione non dipende dal tipo di polimero ma da caratteristiche ambientali, e interessa quindi entrambi i tipi di microplastiche studiate, sia quelle alimentari che quelle tessili, che ormai hanno raggiunto una concentrazione di 1,5 milligrammi per ogni kg di sedimento raccolto, negli strati più recenti. Il polimero più abbondante è infine il polipropilene, seguito dal polietilene e dal poliestere, fatto che dimostra che il contributo maggiore a questo tipo di inquinamento perenne è quello che arriva dal packaging degli alimenti.
Questi risultati aiutano a comprendere perché moltissimi paesi si stiano finalmente impegnando per dire addio alla plastica: per citare solo una delle ultime e significative mosse in questa direzione, da gennaio 2023 in Francia è vietato (leggi articolo) vendere cibo in packaging e suppellettili in plastica monouso per chi consuma nel ristorante: una legge drastica, che ha costretto soprattutto i gestori dei fast food a rivedere completamente il sistema di distribuzione, lavaggio e riutilizzo, ma che va nella giusta direzione.
© Riproduzione riservata
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica
Ho notato che nel salmone affumicato mettono la plastica fra una fettina e l’altra. Ed è ben attaccata alla fettina di salmone! Non lo compro più.
Purtroppo il danno fatto è già incalcolabile. Pensate che circa 10 anni fa, ho raccolto in una spiaggia un frammento di roccia, calcarenite penso, con incorporate palline di polistirolo. L’ ho conservata e potete vederla nella foto. Allora ero incredula, ora non più.
sconfortante