Caotici e folli. Così il Guardian, riprendendo un commento di Ben Lilliston dell’Institute for agriculture and trade policy britannico, definisce i grandi macelli che in molti paesi stanno diventando focolai di Covid-19, preoccupando le autorità sanitarie. Questi luoghi, insieme agli allevamenti intensivi e ai wet market, rappresentano diversi aspetti di un rapporto malato con la natura, di cui l’umanità paga ora il conto.
Sempre meno gestiti da macellatori indipendenti e sempre più anelli di filiere enormi, in mano a colossi di dimensioni planetarie come Cargill e Tyson Food, ma al tempo stesso luoghi dove vigono condizioni di lavoro che vengono sovente accostate alla schiavitù, i macelli hanno sempre continuato a lavorare durante la pandemia (almeno fino allo scoppio dei focolai), questo ha favorito la diffusione del coronavirus, all’interno e all’esterno.
Il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti, con oltre 180 impianti colpiti, ma situazioni analoghe si segnalano in Irlanda, Spagna, Germania, Regno Unito, Canada, Brasile e Australia. L’effetto drammatico è l’abbattimento obbligato di migliaia di capi che gli allevatori non si possono più permettere di mantenere a causa dell’inceppamento della filiera della carne.
Come tutto ciò sia potuto succedere è abbastanza chiaro. Per le particolari situazioni lavorative che si creano nei macelli, spesso non è stato possibile indossare le opportune protezioni o introdurre le misure di distanziamento e disinfezione, spiega il Guardian. In più in molti paesi la forza lavoro è costituita da immigrati, anche irregolari, che sfuggono ai controlli e vivono in abitazioni affollate, dove il contagio si diffonde velocemente.
Il risultato è un lungo elenco di focolai. Negli Stati Uniti a fine aprile si erano registrati 5 mila casi e 20 decessi. Secondo il Midwest Center for Investigative Reporting i contagi reali associati ai macelli sarebbero più di 10 mila. Molti impianti sono stati chiusi (20 nelle ultime settimane), per situazioni simili a quelle riscontrate in un macello di suini del Sud Dakota, dove 850 lavoratori contagiati perché, secondo le autorità sanitarie, molti avrebbero continuato a lavorare nonostante i sintomi per ragioni di insicurezza economica. La Tyson, invece, ha offerto 500 dollari di bonus ai dipendenti degli stabilimenti per la lavorazione dei polli che continuano a lavorare, a prescindere dalle condizioni di salute.
In Alberta, Canada, un impianto di Cargill ha avuto poco meno di mille casi, mentre in Australia, a Melbourne, un altro (di Cedar Meats) ne ha registrati 70. Non si salva, ovviamente, il Brasile, dove la malattia è stata sempre sottovalutata dal presidente Jair Bolsonaro: anche lì i casi nei macelli sono numerosi. Negli ultimi giorni è stata segnalata la situazione, in particolare, del produttore BRF, con più di 300 casi e un tasso di positività del 6,6% tra i 5.100 dipendenti di un impianto, ma nessuna chiusura. I governatori locali hanno intrapreso una dura campagna legale per chiuderne qualcuno ma finora, secondo la Reuters, che cita documenti governativi cui ha avuto accesso, solo nove sono stati fermati, mentre circa 16 mila lavoratori sono stati esposti al contagio, anche se i malati ufficiali sono solo 124.
In Europa preoccupa la situazione della Germania, dove 300 lavoratori, molti dei quali immigrati, si sono ammalati nell’impianto della Müller Fleisch di Birkenfeld e quella dell’Olanda, dove sono stati registrati quasi 150 casi in uno stabilimento per la lavorazione della carne di maiale ai confini con la Germania. In Spagna ci sono stati oltre 200 casi in un impianto vicino ad Aragona (di Litera Meat), mentre in Irlanda i contagi accertati sono oltre 560, in 10 stabilimenti, uno dei quali è in un impianto per la macellazione dei suini in cui ci sono stati oltre 120 casi.
Le aziende, dal canto loro, si muovono con estrema lentezza. Anche se tutte affermano di aver attivato le procedure per rendere i macelli più sicuri, solo alcune hanno iniziato a progettare protocolli specifici validi anche per il futuro, lavorando con i veterinari e i virologi. Molte si sono limitate a elargire dei bonus a chi è rimasto al lavoro.
Secondo Marion Nestle, l’esperta di alimentazione della New York University, questo è il risultato di ciò che il sistema alimentare ha realizzato negli ultimi anni, cioè un network verticale, improntato al solo profitto e alla resa, senza alcuna attenzione per la salute e il benessere degli animali e dei lavoratori né, tantomeno, per l’ambiente. Forse questa situazione – ha concluso Lilliston – aiuterà tutti, a partire dagli americani, ad avere maggiore consapevolezza sull’importanza della sicurezza alimentare, su come viene prodotto il cibo nei paesi industrializzati, sui rischi cui siamo esposti e su quanto un sistema così composto sia fragile e poco resiliente a crisi come quella del Covid-19.
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Giornalista scientifica