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Come docenti universitari di Scienze e tecnologie alimentari e Chimica degli alimenti presso l’Università degli Studi di Bari abbiamo apprezzato la proposta che in Italia venga introdotta una tassa del 20% sulle bibite zuccherate, da destinare a progetti di educazione alimentare.

La storia europea della tassazione sui junk food ha radici antiche e inizialmente alcuni stati hanno emanato leggi sullo zucchero, sui dolci e sulle bevande analcoliche (beni voluttuari) ignorando il potenziale effetto sulla salute e l’ambiente, ma badando solo all’effetto sulle finanze pubbliche. Già nel 1922 la Danimarca impose prelievi fiscali sui prodotti con un alto contenuto di zucchero; nel 1981 in Norvegia fu introdotta la tassa su dolci, cioccolatini e bevande analcoliche; dobbiamo aspettare 30 anni affinché anche la Finlandia nel 2011 imponesse una imposta di 0,75 euro per chilogrammo di dolciumi. A seguire l’Ungheria nel 2012 introdusse una tassa sulle patatine fritte e altri alimenti confezionati con un contenuto elevato di sale, zucchero o carboidrati. L’ultimo e più noto caso è la Francia che nel 2012 salì agli onori della cronaca per la cosiddetta tassa sulla Coca-Cola, l’imposta sulle bevande gassate e zuccherate che incide nella misura di circa due centesimi per lattina, in media.

La tassazione degli alimenti può rappresentare uno strumento in grado di influenzare i consumi e i comportamenti dei consumatori nei confronti del cibo. Se ben utilizzate, le tasse possono determinare profondi cambiamenti nel quadro epidemiologico della popolazione nel lungo periodo riducendo in maniera significativa la spesa sanitaria di uno stato. L’approccio dominante individuato nella letteratura è l’imposizione di tasse sul “cibo spazzatura” con lo scopo di incrementare il gettito fiscale. Questa tipologia di tasse grava principalmente sul consumatore ed è fortemente contrastata dalle lobby delle grandi industrie.

Un’alternativa che potrebbe vedere l’Italia pioniera e orientata verso un modello di pensiero positivo è affiancare la food tax, che è penalizzante per i produttori di junk food, con l’applicazione di incentivi basati sulla detrazione fiscale per le aziende che producono alimenti salutistici. Tale primato può e deve essere italiano poiché, per le nostre latitudini e per il clima mediterraneo, l’Italia ha un potenziale produttivo di cibi salutistici nettamente superiore alle nazioni che hanno già applicato la food tax intesa in senso punitivo. Tale combinazione favorirebbe la maggiore disponibilità di alimenti salutistici sul mercato poiché lo sgravio fiscale rappresenterebbe di per sé un incentivo per le aziende, ed aumenterebbe la percentuale di acquisto di alimenti salutistici da parte dei consumatori perché avrebbe una azione calmierante sui prezzi.

Non ci resta che offrire la nostra disponibilità ad integrare la lettera, sostenute dalla presenza nel nostro ateneo di Antonio Felice Uricchio, professori di Diritto tributario, esperto in food tax e rettore. Bisogna valutare che la proposta di una detassazione incontrerebbe minori ostacoli lobbistici e legislativi della sola sovra-tassazione.

Maria Lisa Clodoveo – Dipartimento Interdisciplinare di Medicina – Università degli Studi di Bari
Filomena Corbo – Dipartimento di Farmacia-Scienze del Farmaco – Università degli Studi di Bari

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