Mani con guanti tengono un'insalatiera di vetro con insalata di verdure e larve di insetti sopra tante ciotole di vetro con gli ingredienti

Insetti, krill, biomassa microbica, micoproteine, funghi o piante come i piselli o la colza… Si chiamano Alternative Protein Food (APF), e sono un’infinità di alimenti realizzati a partire da fonti proteiche diverse da quelle classiche come le carni o i pesci degli allevamenti e dagli impianti di acquacoltura intensiva. La loro presenza è già una realtà, e lo sarà sempre di più, dal momento che il cambiamento climatico sta stravolgendo le filiere alimentari, e rendendo necessario e urgente da una parte l’abbandono o il forte ridimensionamento delle pratiche intensive, dall’altra lo sfruttamento di fonti proteiche a basso impatto ambientale.

Ma i consumatori – in questo caso europei – che cosa ne pensano? Sono pronti a nutrirsi per esempio di alghe, di micoproteine o di insetti? Per scoprirlo, un team internazionale di ricercatori di Germania, Danimarca, Italia (in particolare dell’Università di Bologna), Grecia e Norvegia, con il coordinamento di quelli della SWPS University di Wroclaw, in Polonia, ha analizzato quanto emerso negli ultimi anni e ha pubblicato i risultati su Food Quality and Preference.

Lo studio

Gli autori hanno scandagliato ben 11 database di pubblicazioni scientifiche, e identificato 25 studi condotti in 18 Paesi che affrontavano i temi dell’opinione e della propensione al consumo riguardo agli APF. Il quadro complessivo emerso presenta alcuni tratti comuni, ma numerose caratteristiche che variano da Paese a Paese.

Innanzitutto, in generale, e forse un po’ a sorpresa, gli europei (soprattutto i danesi, gli spagnoli e gli inglesi) hanno un’opinione migliore degli ibridi (i prodotti con farine vegetali e carne) che della carne tradizionale, perché li considerano sostenibili, gustosi e sani. Tuttavia, non sempre il sentimento positivo si traduce in propensione al consumo: per esempio, solo il 46% dei danesi sarebbe pronto a consumare un ibrido di carne (sei su dieci mostrano una scarsa inclinazione all’acquisto), contro il 63% degli spagnoli, e il 53% degli inglesi.

cotolette di pollo con insalata
Gli europei hanno un’opinione migliore degli ibridi (i prodotti con farine vegetali e carne) che della carne tradizionale, perché li considerano sostenibili

Le differenze in base al livello di conoscenze

Emergono poi notevoli differenze nel livello di conoscenza dei consumatori dei diversi Paesi. Polacchi e cechi, per esempio, ne sanno molto poco, di nuove fonti proteiche, e mostrano una bassa propensione al consumo, a differenza di quanto si vede in Germania, dove le informazioni in possesso della popolazione sono decisamente più approfondite.

Si conferma poi il fatto che, rispetto alle fasce di età, i giovani sono coloro che più volentieri sperimentano alimenti nuovi, o sono disposti a farlo. Così, tra i ragazzi tedeschi, ben il 73% si possono considerare “food innovator”, cioè disposti a provare un alimento nuovo, appena esso viene introdotto in commercio, oppure “early follower”, cioè pronti a farlo dopo qualche considerazione. Ma nella Cechia, in Polonia, in Slovacchia gli innovatori costituiscono solo tra il 24 e il 36% del totale dei giovani. Inoltre, il 13-17% dei ragazzi di questi Paesi si dichiara fortemente contrario, mentre in Germania quasi nessuno dei giovani prende posizioni così nette. Si ritrova quindi, anche in queste fasce di età, il rapporto tra conoscenza insufficiente o comunque lacunosa, e diffidenza.

La neofobia

Più si vive in una città multietnica, maggiore è la predisposizione a provare anche APF

Una delle motivazioni principali che può allontanare le persone dagli APF è poi la neofobia, cioè la repulsione verso alimenti del tutto nuovi, e verso fonti proteiche mai considerate come cibo dalla propria tradizione alimentare. Il caso classico è quello degli insetti, in cui si ritrova, di nuovo, anche il rapporto tra informazione e inclinazione. In Spagna e in Gran Bretagna, infatti, solo il 18-22% della popolazione si dice disposto ad acquistare cibo che contenga insetti (farine o insetti interi), e la propensione è bassa anche in Germania e in Repubblica Ceca. Ma in Finlandia, Paese che per primo ha avviato la commercializzazione (ormai da qualche anno) e in Svezia, il sentimento è decisamente più positivo. Niente da fare, invece, in Italia,dove, secondo i coordinatori dello studio, la cultura alimentare è forse la più radicata e tenace d’Europa e, quindi, le innovazioni stentano ad affermarsi.

L’urbanizzazione

Infine, esiste un rapporto tra il tipo di luogo in cui si risiede e l’apertura verso nuove esperienze alimentari. Secondo i dati, più si vive in una città multietnica, maggiore è la predisposizione a provare anche APF, perché si sperimentano più spesso tradizioni culinarie molto diverse dalla propria. Un caso evidente è Parigi: nella capitale francese la propensione a includere le alghe è decisamente superiore rispetto a quanto si osserva in altre cinque città francesi meno multietniche, e con meno ristoranti etnici (molti dei quali, a Parigi, sono asiatici, e offrono dunque, regolarmente, anche alghe).

In definitiva, secondo i coordinatori, che sono i responsabili del progetto europeo Like a Pro – From niche to mainstream – alternative proteins for everybody and everywhere – al quale aderisce anche l’Italia, e che ha lo scopo proprio di studiare e promuove fonti alternative di proteine, l’analisi indica alcuni aspetti sui quali intervenire. Il primo di tutti è l’informazione, perché più i consumatori sono a conoscenza degli aspetti nutrizionali e di quelli ambientali, maggiore è la loro disponibilità almeno a provare alimenti del tutto nuovi.

Gli inglesi e gli insetti

Negli stessi giorni, poi, un altro studio, questa volta condotto solo tra cittadini del Regno Unito, e presentato al congresso europeo sull’obesità svoltosi a Venezia dai ricercatori della Edge Hill University di Ormskirk, in Inghilterra, ha focalizzato l’attenzione sugli insetti. In questo caso, i ricercatori hanno chiesto a 600 adulti (età media: 34 anni) di attribuire un punteggio usando una specifica “Scala del disgusto alimentare”, che valuta la reazione a situazioni quali un alimento caduto per terra o ammuffito, o il consumo di parti di animali insolite. Inoltre, è stato chiesto loro quale pensavano sarebbe stato tipo di sapore e di consistenza che avrebbero trovato in un alimento mai sperimentato prima.

In generale, le risposte non sono state affatto positive: le previsioni erano spesso di un sapore salato, amaro e sapido. Inoltre, solo il 13% dei partecipanti ha affermato di essere disposto a consumare insetti, mentre il 47% si è dichiarato contrario, e il 40% indeciso (percentuale ampia, sulla quale è possibile lavorare).

Le contraddizioni

Sono emerse, poi, alcune contraddizioni. Per esempio, anche se la propensione è risultata più favorevole verso le farine che verso gli insetti interi, le intenzioni di acquisto si sono rivelate opposte: i partecipanti avrebbero preferito consumare insetti interi, piuttosto che alimenti con farine. Atipica anche la situazione dei più giovani che, in questo caso, hanno mostrato un’inclinazione a mangiare insetti sempre più bassa via via che si scendeva con l’età (con una diminuzione del 2% per ogni anno in meno): un dato che, per ammissione degli stessi autori, ne contraddice numerosi altri, che hanno sempre evidenziato come i più giovani siano più disponibili almeno a provare.

Anche in questo studio, comunque, la conclusione è la stessa: se si vuole che le persone includano nella propria dieta gli insetti, bisogna agire sul fronte della conoscenza, e su quello della familiarità. Come è avvenuto con i burger vegetali, probabilmente è opportuno preparate piatti già noti come gli stessi hamburger e simili, offrendone una versione con insetti, perché in questo modo si attenua la neofobia e si sgombra il campo da uno degli elementi che maggiormente trattengono le persone dallo sperimentare APF.

© Riproduzione riservata. Foto: Depositophotos.com

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Daniela
Daniela
28 Giugno 2024 09:10

La domanda è: “Siamo pronti?” La risposta mi sembra: “A lasciarli sugli scaffali, sì”.
Saranno state spese ingenti somme per studiare gli allevamenti di insetti, e questo giustifica la pressione verso quelle bocce da sfamare che sono i “consumatori” (ma che brutto termine!), ma mille incognite si presenteranno per la gestione di questo nuovo business: dispendio energetico per garantire temperature e umidità costanti, protezione da contaminazioni esterne o da fughe degli ospiti con prevedibile catastrofe ecologica, epidemie sconosciute (quanti veterinari esistono specializzati in malattie degli insetti, trasmissibili o meno all’uomo? Come è possibile monitorare la salute di un insetto?), reazioni dell’organismo umano verso il nuovo cibo, mai sperimentato in migliaia di anni, che può provocare allergie inattese o altro (ah, si chiama neofobia, così sembra di competenza dello psicologo, non della medicina che studia l’organismo nella sua complessità). Ma abbiamo proprio bisogno di ridurci a mangiare insetti? Abbiamo creato quelle atrocità degli allevamenti intensivi per avere proteine “nobili” perfino in eccesso, in alternativa sappiamo bene che ci sono piante che ci danno ottime proteine, oltre che arricchire i terreni e fornire ossigeno con la loro presenza. No, dobbiamo cercare altro. Ma quale popolo si nutre prevalentemente di insetti? Il problema dell’occidente non è la denutrizione, ma l’obesità che avanza. E non credo che alleveranno insetti nei Paesi ridotti alla fame da guerre, malattie, mancanza d’acqua. E ancora: se fosse così bello, sano e nutriente mangiare cavallette, perché l’arrivo di questi insetti è sempre stato visto come catastrofe e non come opportunità, tipo la manna dal cielo, l’arrivo dei bisonti, le migrazioni di massa dei salmoni… No, le cavallette non venivano accolte come cibo, chissà perché. Cercheremo di scoprirlo noi, dopo un’accurata riconversione alimentare.

Valeria Nardi
Reply to  Daniela
28 Giugno 2024 09:56