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L’influenza aviaria, che da mesi imperversa in tutto il mondo come forse mai prima, ha creato una situazione preoccupante negli Stati Uniti, che tutta la comunità scientifica osserva, ansiosa di capire meglio cosa sia accaduto. Il virus H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) è infatti passato dai volatili ai bovini da allevamento, e da questi a un uomo. La scoperta dello spillover ha dato il via a indagini estese e ancora in corso, che hanno disvelato una realtà molto peggiore del previsto, a cominciare dal coinvolgimento della filiera del latte. Ma andiamo con ordine.

Il lavoratore colpito da influenza aviaria

Il primo aprile il Texas Department of State Health Services ha reso pubblico il caso di un lavoratore infettato dal virus H5N1. L’uomo, in cura con antivirali, mostrava solo una congiuntivite, ed era stato scoperto grazie ai sistemi di sorveglianza, che obbligano i proprietari degli allevamenti a segnalare alle autorità qualunque sintomo tra chi è a stretto contatto con gli animali. I test eseguiti hanno confermato che si trattava di aviaria H5N1 HPAI.

È il secondo caso in assoluto mai diagnosticato negli Stati Uniti. Il primo caso si era verificato nel 2022, in Colorado, e anche allora i sintomi erano stati lievi. Tuttavia, i passaggi di specie dai volatili ai mammiferi, negli ultimi anni sono stati tantissimi: solo nell’ultimo anno almeno 900 in 23 Paesi, con positività scoperte negli animali più diversi, dai leoni marini agli orsi, dai visoni alle volpi, dai felini grandi e piccoli a numerosi mammiferi di piccola taglia.

Per il momento, i focolai di aviaria nei bovini sono 33, in otto stati anche molto lontani tra di loro. Il punto, in questo caso, è capire perché, quasi improvvisamente, lo stesso virus aviario abbia colpito allevamenti distanti, perché questo sia passato all’uomo, e che rischi ci siano.

Allevatore cammina tenendo in mano un fusto di metallo accanto a vacche da latte in un allevamento; concept: mucche, bovine da latte
Un lavoratore di un allevamento americano di bovine da latte ha contratto il virus dell’influenza aviaria

Origini sconosciute

In generale, in casi come questo ci sono due possibilità: può trattarsi di un contagio diffuso da uccelli migratori infetti che si spostano, oppure di un solo focolaio non identificato per tempo, dal quale inizia una diffusione passiva, per esempio attraverso mezzi di trasporto, lavoratori o materiali come i mangimi utilizzati in allevamenti diversi. Stando alle caratteristiche genetiche, piuttosto uniformi, si pensa che si sia trattato di un evento del secondo tipo, perché altrimenti i virus sarebbero mutati di più, anche se non ci sono ancora risposte certe. 

Ma ciò che preoccupa di più è un’altra informazione. Secondo le ultime notizie, diffuse da uno dei centri che stanno effettuando le analisi, l’Università del Nebraska, tutto fa pensare che il passaggio ai bovini sia stato in realtà molto precedente rispetto a quando è stato scoperto, e sia avvenuto alla fine del 2023, senza essere stato individuato. Proprio per questo il virus si sarebbe diffuso indisturbato, fino a quando non ha colpito un essere umano. E infatti, sempre secondo i ricercatori che ci stanno lavorando, non sarebbe affatto strano o atipico scoprire altri casi di infezione umana.

Intanto, il Dipartimento statunitense dell’Agricoltura ha confermato che il virus passa da bovino a bovino, non tanto per via aerea quanto, piuttosto, attraverso il contatto con materiali contaminati come le apparecchiature utilizzate per la mungitura. Inoltre, le caratteristiche genetiche che ha acquisito lo rendono molto infettivo tra i mammiferi ma, per il momento, non particolarmente per le persone.

Il latte con il virus dell’influenza aviaria

latte
La FDA ha reso noto di aver trovato tracce del virus dell’influenza aviaria nel latte pastorizzato in commercio

Tuttavia, il fatto che i bovini colpiti fossero da latte ha suscitato allarme. Infatti è proprio il latte l’osservato speciale, per le possibili ripercussioni commerciali e non solo. Pochi giorni fa la Food and Drug Administration (FDA) ha reso noto il ritrovamento di residui genetici virali nel latte pastorizzato commerciale.

In esso si legge che i test condotti con la tecnica della PCR hanno rilevato la presenza di materiale genetico di H5N1, ma per il momento non è possibile sapere se si tratta di semplici frammenti rimasti dopo la pastorizzazione, oppure di particelle virali sopravvissute, e magari in grado di riprodursi. Sarebbero in corso le prove per capirlo, cioè le inoculazioni nelle uova e in colture cellulari del latte positivo. Se il latte contenesse virus interi, infatti, l’uovo e le cellule sarebbero ambienti ideali per la loro riproduzione.

L’impiego della PCR, con tutti i suoi limiti, è la prassi. Ma ciò che non è affatto piaciuto a molti virologi è stato il comunicato della FDA, considerato superficiale e privo di una serie di informazioni fondamentali. 

Le polemiche

Secondo il sito Stat che sta seguendo tutta la vicenda molto da vicino, l’agenzia non ha specificato su quanti campioni hanno fatto le analisi (il loro ‘peso’ statistico varia se si tratta di molti o pochi), né il numero di negozi visitati (idem, per la rappresentatività dei dati rispetto alla zona), o la distanza delle rivendite dalle zone dei focolai (che può far comprendere se l’epidemia è circoscritta o meno). Inoltre, non ha fornito la percentuale esatta dei campioni risultati positivi rispetto a quelli testati (forse il dato più importante), né se la concentrazione del materiale virale trovato era alta o bassa (da questo dipende, anche, l’efficacia di un certo trattamento). Mancano quindi informazioni assolutamente essenziali per capire, tra le altre cose, se la pastorizzazione annulli o meno il rischio di trasmissione di virus vivi.

In parte, queste informazioni sono state fornite, sempre a Stat, dai ricercatori dell’Università dell’Ohio, che hanno deciso di non aspettare oltre e di condurre proprie indagini sul latte commerciale. Così, hanno acquistato 158 campioni in dieci stati, e hanno trovato tracce genetiche di H5N1 in 58 di essi: una percentuale di positività, quindi, compresa tra il 30 e il 40%, a seconda dei negozi, che non scenderebbe mai al di sotto del 20%. Anche in questo caso, si stanno conducendo i test per capire se ci siano virus vivi, anche se si pensa che la pastorizzazione sia efficace.

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I ricercatori dell’Università dell’Ohio hanno trovato tracce del virus in una percentuale di campioni di latte pastorizzato tra il 30 e il 40%

La pastorizzazione

La pastorizzazione consiste, in generale, nel far passare il latte a contatto con una temperatura elevata per pochissimo tempo. Ma le modalità del contatto (in quale superficie, a quale temperatura, per quanto tempo e così via) sono le più diverse, e l’esito dipende anche da esse, oltreché dalle caratteristiche del germe da neutralizzare. 

Al momento, non esistono studi che abbiano descritto che cosa accade al virus H5N1 nel latte durante la pastorizzazione, anche se la FDA, come la maggior parte degli esperti, ritiene che il trattamento sia sufficiente. Ma non ci sono prove specifiche. Per questo, se una delle variabili interessate è inadeguata (per esempio, una temperatura troppo bassa o una carica virale troppo alta), l’esito può essere molto meno positivo del previsto. Nella maggior parte dei casi, negli Stati Uniti, la pastorizzazione prevede il passaggio a 72°C per 16 secondi. Tuttavia nessuno sa se si possa considerare o meno sufficiente per la neutralizzazione dell’aviaria.

Secondo uno studio tedesco uscito nel 2022, un passaggio a 60°C per 30 minuti (un tempo enormemente superiore rispetto a quelli tipico della pastorizzazione, che è sempre di poche decine di secondi) sarebbe sufficiente a far diminuire di quattro volte la concentrazione di virus dell’aviaria presente nella carne e nelle feci di pollo e nelle uova. Tuttavia, il latte ha caratteristiche molto diverse dal pollo, tra le quali la continua formazione di microbolle di grassi, che potrebbero renderlo un rifugio ideale per i virus. È quindi indispensabile controllare ogni aspetto, e avere un’idea molto più precisa di cosa sia successo e di cosa stia accadendo ora.

La prossima pandemia sarà di influenza aviaria?

Secondo tutti gli esperti, sarebbe proprio l’influenza aviaria la cosiddetta malattia X da cui potrebbero nascere nuove pandemie, e gli andamenti degli ultimi anni, purtroppo, confermano le accuse. Ciò che preoccupa molto, in questo caso, è la sottovalutazione della situazione, perché per ora nessuno ha preso misure particolarmente severe, né di contenimento né di vaccinazione, esattamente come accadde nei primi mesi con il Covid. Ma una diffusione così ampia amplifica il rischio che questi virus mutino, magari passando anche dai suini, con conseguenze imprevedibili. Conoscere i dettagli degli spillover e quelli genetici, così come sapere se l’infezione possa essere trasmessa attraverso il latte pastorizzato sono priorità assolute. 

Nelle ultime ore, però, la Colombia ha annunciato di aver vietato le importazioni di carne da Idaho, Kansas, Michigan, New Mexico, Nord Carolina, Ohio, Sud Dakota e Texas, cioè gli stati nei quali ci sono i focolai. È il primo paese al mondo a farlo, ma con ogni probabilità non sarà l’unico.

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Patrick
Patrick
18 Maggio 2024 12:51

Molto preoccupante, la notizia e il solito prenderla sotto gamba da parte delle amministrazioni.
Il Covid non ha insegnato niente evidentemente.
In Europa come siamo messi?
Il nostro continente, oltre che per il latte, è una eccellenza anche per i formaggi (Italia e Francia in particolare), sarebbe un disastro a livello commerciale ovviamente, ma credo che la sicurezza del cittadino venga prima.

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