Nel nostro Paese, il 50% delle emissioni di gas a effetto serra legate alle attività agricole sono causate dall’allevamento di bovini, suini e pollame. Tuttavia, la zootecnia può contribuire indirettamente anche a una parte dell’altra metà delle emissioni agricole, che comprendono, per esempio, la combustione delle biomasse (che possono provenire anche dagli allevamenti) e l’uso di fertilizzanti, impieganti in abbondanza nella coltivazione intensiva di colture destinate alla produzione di mangimi. Per questo si è deciso di applicare il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) anche alle attività zootecniche, come spiega Anmvi Oggi.
La parte più critica e inquinante dell’allevamento degli animali resta la gestione delle deiezioni, che sono le principali fonti di tre gas a effetto serra in particolare: metano, ammoniaca e protossido d’azoto. Le emissioni di metano, per esempio, sono causate principalmente dalle attività di fermentazione batterica che si verificano sia durante la digestione dei bovini, sia nella materia vegetale non digerita che si ritrova nelle deiezioni.
La fermentazione microbica delle deiezioni animali, però, genera anche ammoniaca, dalla loro produzione alla distribuzione sui campi come fertilizzante. L’ammoniaca a sua volta diventa una delle fonti per la produzione di un terzo gas a effetto serra, il protossido d’azoto, che si forma durante lo stoccaggio del letame e nelle lettiere degli allevamenti.
Come fare, quindi, a ridurre queste emissioni? Le contromisure prese in considerazione per ora riguardano soltanto le emissioni di ammoniaca e comprendono strategie di alimentazione alternativa del bestiame, tecniche riviste di stoccaggio e distribuzione sui campi del letame e un ripensamento dei sistemi di stabulazione.
Si spera che, in un futuro prossimo, vengano elaborate strategie per tagliare le emissioni anche per gli altri due gas climalteranti prodotti dall’allevamento. Nel frattempo, però, anche noi consumatori possiamo contribuire, consumando meno carne e altri prodotti di derivazione animale.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
Fa piacere constatare che qualcuno parla di questo tema. Lo spazio dedicato dai media all´allevamento industriale é infinitamente inferiore alle conseguenze che esso ha sulle emissioni di gas serra.
Visto che FAO e UE dicono che l’agricoltura nel complesso contribuisce per il 10%, la zootecnia contribuisce per il 5%sul totale. Tutto è migliorabile, ma perché tutto questo accanimento sui prodotti di origine animale?
Leggendo l’articolo sembrerebbe che la soluzione ai mali del pianeta sia ridurre o eliminare gli allevamenti. Purtroppo l’articolo dice che il 50% delle emissioni di gas a effetto serra legate alle attività agricole sono causate dall’allevamento, ma non quantifica le emissioni complessive dell’agricoltura né quelle dell’allevamento, né le confronta con quelle ben maggiori delle attività umane legate alle combustioni.
Ho l’impressione che l’articolo voglia colpire gli allevamenti, come fossero il male principale del Pianeta Terra. Infatti, la conclusione dell’articolo, è: “meglio mangiare meno carne”.
Di fatto sarebbe meglio specificare che purtroppo il grosso dell’inquinamento è causato dalle attività umane di combustione.
Senza contare che, anche in un mondo ipotetico dove l’allevamento animale non c’è più, l’uomo (se volesse nutrirsi) dovrebbe comunque continuare con le attività agricole… Per cui si ridurrebbe la quota di quel 50%, senza però eliminare il complessivo legato all’agricoltura… Salvo voler vivere di raccolta di bacche e radici…
Il problema vero dell’inquinamento (e anche dello sfruttamento degli animali e dell’ambiente) è l’essere umano. Per questo l’unica soluzione è quella proposta dal movimento VHEMT (Voluntary Human Extinction MovemenT).
La riduzione dell’impatto ambientale degli allevamenti si può perseguire con un approccio che valorizzi l’ingegno umano e non solo dicendo che bisogna mangiare meno carne e o meno latte.
L’aumento di ritenzione azotata da parte degli animali è ottenibile mediante aminoacidi di sintesi, che migliorano la copertura dei fabbisogni in aminoacidi essenziali e quindi riducono l’azoto urinario, oppure con pre/probiotici (lieviti e estratti vegetali) che migliorano l’efficienza delle fermentazioni ruminali.
Anche le modalità di spargimento dei liquami e del letame possono essere modificate per ridurre l’emissione di ammoniaca
I già citati lieviti riducono anche la produzione di metano e anidride carbonica e tutte le misurazioni fatte, dimostrano che le emissioni di questi gas per unità di latte prodotto calano con l’aumento della produzione. Non quindi attraverso meno tecnologia che si migliora l’impatto ambientale degli allevamenti, ma con il suo contrario.
Non dimentichiamo poi che ridurre il consumo di carne o di latticini aumenta la necessità di ricorrere a integratori per soddisfare i fabbisogni di calcio e ferro e la produzione di integratori genera anidride carbonica, di questo occorre tener conto quanto si parla di interventi pesanti sulla nostra dieta. E non vale dire che questi minerali li troviamo anche negli alimenti vegetali, perché in questi la loro digeribilità è di gran lunga inferiore rispetto a quella degli alimenti di origine animale.
Nel Nord Italia i digestori di deiezioni, sono spesso usati, non capisco perchè non se ne parli nell’articolo, come già in uno pubblicato tempo fa.