Avocado, mango, papaya e maracuja non devono più necessariamente attraversare l’oceano per raggiungere le nostre tavole. La produzione di frutta tropicale nel sud Italia e in particolare in Sicilia, ma anche in Calabria e in Puglia, sta crescendo in maniera esponenziale, mentre si riducono le coltivazioni di agrumi (-50% per i limoni e -30% per le arance). Non è però vero, come si sente dire, che la causa di questo boom sia da ricercare principalmente nel cambiamento climatico. A guardare bene le dinamiche commerciali, i motivi che spingono tanti agricoltori alla conversione dei terreni sono diversi e la crisi del clima può invece rappresentare un problema anche per la frutta tropicale.
La vera ‘molla’ del cambiamento è, come spesso accade, di tipo economico. In primo luogo bisogna chiarire che non ha senso rimpiangere le colture precedenti, erroneamente considerate autoctone. Infatti, nonostante le piante di agrumi siano oggi considerate un simbolo delle colture mediterranee, si tratta di frutta che arrivava originariamente da territori lontani (India ed Estremo Oriente). Negli ultimi anni, comunque, la loro coltivazione nelle regioni del sud Italia ha perso molto valore e numerosi agricoltori non riescono a competere con i prezzi dei colleghi turchi e spagnoli.
Nello stesso tempo, a causa della globalizzazione dei consumi, la frutta tropicale, fino a qualche decennio fa acquistata in Italia esclusivamente in occasione delle festività natalizie, è diventata sempre più oggetto di consumo quotidiano. A quest’attenzione per i nuovi ingredienti esotici si abbina però anche una preferenza per le produzioni locali che, non avendo percorso tanti chilometri ed essendo rimaste sulla pianta fino a completa maturazione, hanno un minor impatto ambientale e, al contempo, sono spesso migliori dal punto di vista organolettico. Per i prodotti coltivati in Italia, anche con metodi biologici, i consumatori sono quindi disposti a pagare un prezzo più alto rispetto alla frutta che ha attraversato l’oceano.
Nasce da qui la “febbre del mango”, ma anche dell’avocado e di tutti gli altri, che ha portato a una superficie coltivata nel nostro Paese intorno ai mille ettari, raddoppiando la produzione in meno di tre anni (dati Coldiretti), un boom, per un tipo di coltura che in Sicilia si sperimentava già nei lontani anni Sessanta. Un censimento vero e proprio dei terreni impiegati è difficile, visto il carattere sperimentale di molte colture. Mentre assistiamo alla nascita di numerosi impianti, molti sono quelli che muoiono. Le difficoltà, effettivamente, non mancano: si tratta infatti per la gran parte di coltivazioni che non resistono a temperature inferiori ai 4 gradi centigradi e che hanno bisogno di tanta acqua, soprattutto nei mesi più caldi.
Queste produzioni sono arrivate a soddisfare oggi solo il 5% della domanda nazionale. Il loro potenziale di crescita è notevole e non manca una forte domanda dal resto d’Europa. La redditività delle colture, inoltre, è fino a 15 volte superiore a quella delle arance e rende possibile l’investimento in soluzioni di precision farming, come le tecniche di irrigazione a goccia, molto importanti per affrontare condizioni climatiche avverse. Le zone che risultano a oggi maggiormente vocate sono quelle del messinese e dei monti Nebrodi, ma anche dell’Etna, si tratta infatti di territori particolarmenti ricchi di acqua. Si stanno però studiando le strategie per allargare le aree di coltivazione, mentre gli agricoltori più intraprendenti sperimentano nuove coltivazioni: dall’amato caffè, alla meno conosciuta moringa.
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Mi pare per lo più una ottima notizia. Come scritto, riduce lo spreco del trasporto, permette la raccolta più vicino alla maturazione. Offre agli agricoltori opportunità di coltivazioni che danno reddito (cosa non facile in questi anni) e dove c’è agricoltura c’è anche cura del territorio, meno incendi ed alluvioni. Probabile risparmio nei contributi europei della PAC.
Tra i difetti segnalo qualche impatto sul nostro paesaggio tradizionale mediterraneo e la questione citata nell’articolo di un uso maggiore di acqua, ma questo dipenderà anche dalle varietà usate e la selezione farà la sua parte.
Se sarà vera gloria lo vedremo più avanti ma capisco e condivido il pensiero che è realmente indispensabile per i coltivatori trovare una buona fonte di ricavi , in questo momento più che mai in cui il lato finanziario speculativo tende a diminuire i prezzi pagati ai coltivatori oltre ogni limite di decenza.
Ora la frutta esotica nostrana gode di un periodo di curiosità e favore ma non durerà a lungo e si vedrà meglio se varrà la pena di continuare o no…… ma i consumatori saranno disposti a pagare un frutto 4/5 euro e farlo diventare oggetto giornaliero quando una mela/pera/pesca/albicocca costa molto meno? quanto ai valori nutrizionali poi non ci si faccia illusioni perchè esami approfonditi diranno la verità più della propaganda commerciale.
D’altra parte guardando il calo di coltivazione degli agrumi si potrebbe verificare un paradosso, cioè risparmieremo carburante per l’approvvigionamento dei manghi ma poi importeremo quantità sempre maggiori di agrumi dal sud America e sud Africa, cambia veramente qualcosa, ambientalmente parlando?
Ora, non è per fare nazionalismo a buon mercato, ma se è certamente vero che “numerosi agricoltori non riescono a competere con i prezzi dei colleghi turchi e spagnoli”, è anche vero che le arance turche o spagnole non sono buone come quelle italiane.
E comunque, a proposito di prezzi, alcuni anni fa un supermercato inglese vendeva una retine di quattro tarocchi, piccolini e nemmeno particolarmente buoni, a più di cinque euro