Entro il 2030, un quinto dei prodotti in vendita nei supermercati francesi potrebbe essere sfuso. È questo il panorama che si prospetta se sarà approvata in via definitiva la proposta di legge “clima e resilienza” promossa dalla ministra della Transizione ecologica Barbara Pompili, che è attualmente in discussione all’Assemblea Nazionale, la camera più importante del parlamento francese. Ma l’idea di stabilire una quota obbligatoria di prodotti sfusi per ridurre la quantità di imballaggi presenti sul mercato non è piaciuta a tutti.
L’articolo 11 del testo in esame, infatti, stabilisce che tutti i punti vendita di oltre 400 mq, entro il 2030, dovranno riservare almeno il 20% della superficie ai prodotti sfusi. Ma se per alcuni settori può essere relativamente semplice proporre prodotti sfusi nei supermercati, come già si fa per frutta e verdura, non è così per tutti. Per esempio, i produttori di cosmetici avevano evidenziato i potenziali rischi microbiologici e igienici legati alla vendita sfusa dei propri prodotti. Inoltre i distributori hanno sottolineato che la misura si applicherà solo ai punti vendita fisici, e non all’e-commerce, un settore la cui crescita è stata accelerata dalla pandemia.
Le critiche sono state accolte dalle ministra della Transizione ecologica, che ha riconosciuto la necessità di non mettere in difficoltà i distributori operanti in alcuni settori. Proprio per questo motivo, attraverso alcuni emendamenti, sono state introdotte delle eccezioni alla regola del 20% di prodotti sfusi per specifici punti vendita, come le profumerie e le enoteche.
Secondo i dati del ministero della Transizione ecologica, attualmente la vendita di prodotti sfusi nei supermercati francesi di dimensioni medio-grandi rappresenta tra l’1% e il 3% del totale e, come è facile immaginare, riguarda principalmente frutta, verdura e, in misura minore, cereali. Raggiungere il 20% di prodotti sfusi quindi non sarà facile, e secondo un esperto di grande distribuzione sentito da Europe1 si tratta di un obiettivo irrealizzabile: “tutti i prodotti o quasi dovrebbero avere una loro versione sfusa per poterli trovare nei negozi, e non è così.”
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
Mi sembra che la Barbara Pompili viva in un iperuranio fantastico dove folletti e fate convivono con gli umani e che le sue proposte si scontrino con la realtà, i prodotti sfusi sono esistiti finché sono esistiti i negozianti, e quindi una sola persona (che si spera rispettasse le norme di igiene) prelevava e misurava i quantitativi richiesti e li consegnava al cliente incartati, insacchettati, o comunque “confezionati” da lui, dallo zucchero alla pasta al tonno sott’olio alla conserva di pomodoro alle mentine al latte.
Gli esperimenti di vendita di prodotti sfusi “self service” tentati in grandi centri commerciali hanno avuto breve durata perché i clienti riuscivano a bloccare aperti i distributori, a far cadere a terra i prodotti, a riempire troppo i sacchetti che poi abbandonavano per riempirne altri con meno prodotto, a pasticciare con le mani le bocchette di erogazione, a rompere le leve di comando, a consumare parte dei prodotti (caramelle, dolcetti…) prima della pesatura, al punto che i super hanno rinunciato dopo pochi mesi e smantellato tutto.
Solo in alcuni piccoli centri esiste ancora lo sfuso, persino per i detersivi, ma sotto il controllo di un operatore, e il paragone con frutta e verdura non ha senso perché a parte la carissima quinta gamma il loro preconfezionamento è di fatto poco praticabile, per prenderle ci si deve mettere i guanti, e in ogni caso vengono poi lavate a casa, cosa impossibile con granaglie, dolciumi e analoghi.