pfas, mappa contaminazione in Veneto

Quella che ha coinvolto le province venete di Vicenza, Verona e Padova è probabilmente la contaminazione da Pfas più estesa del mondo, per area geografica e per numero di persone coinvolte ma, soprattutto, non riguarda solamente l’acqua potabile. Lo confermano i dati sui campioni di alimenti prelevati nella zona rossa, resi noti questo mese di settembre da Greenpeace e dall’associazione Mamme No-Pfas e ottenuti dopo una battaglia legale con la regione Veneto.

Nell’ormai lontano 2017 l’Istituto superiore di sanità aveva infatti analizzato oltre 1.200 campioni di alimenti prelevati nella zona rossa, distribuiti equamente tra vegetali e di origine animale. I risultati di quest’analisi non erano finora stati resi noti, se non in forma parziale. Dai dati forniti, emerge che i prodotti che hanno assorbito le dosi maggiori di contaminati, tra quelli analizzati, sono le uova di gallina (fino a 37.600 nanogrammi in un chilo), seguite dal fegato di maiale (fino a 36.800 nanogrammi/chilo) e dalle carpe (fino a 18.600 nanogrammi/chilo). La tabella e la mappa pubblicate dalle due associazioni elencano i campioni risultati positivi alla contaminazione per almeno una molecola delle 12 analizzate e i comuni in cui sono stati raccolti. “Anche se i campioni positivi risultano 204 su un totale di 1.248 analizzati – spiega Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace – va precisato che non ci sono stati forniti effettivamente tutti i dati e mancano inspiegabilmente all’appello proprio alcuni dei pesci prelevati dai corsi d’acqua contaminati”.

Pfas inquinamento acqua
La contaminazione da Pfas del Veneto non riguarda solo l’acqua potabile e i pesci della zona rossa. Le analisi su vegetali, carni e uova mostrano una presenza diffusa delle molecole inquinanti

Sebbene comunicati in maniera non del tutto completa, i dati confermano che la contaminazione ha riguardato molte tipologie di alimenti tuttora prodotti nella zona e complessivamente il quadro non è comunque esaustivo. I criteri in base ai quali sono stati scelti alcuni campioni piuttosto che altri risultano comunque poco chiari e non sistematici. Sono stati per esempio analizzati 80 fegati di vitello/vitellone mentre, per quanto riguarda una produzione molto importante nell’area, come quella del radicchio, è stato preso in considerazione un solo campione. Sono del tutto assenti altre matrici ricche d’acqua e importanti nell’economia della zona, come, solo per citarne alcuni, melone e anguria. Non è neppure noto il criterio di scelta delle aree di prelievo, l’unica indicazione è che si tratta esclusivamente di produttori nella cosiddetta zona rossa, tra la provincia di Verona e di Vicenza. Vi è infine una decisione precisa da parte degli estensori dei dati, che hanno scelto di non rendere noti nel dettaglio i nomi dei coltivatori e degli allevatori coinvolti nella rilevazione. Il motivo è di non danneggiare ulteriormente realtà imprenditoriali che non hanno responsabilità, per le quali nessuna misura di tutela risulta finora essere stata messa in atto dagli enti preposti.

Coltivatori e allevatori del territorio sono molto probabilmente i più coinvolti anche sul fronte sanitario. Nonostante su quest’aspetto siano stati fatti studi a tappeto sulla popolazione, un’indagine condotta nel 2017 sempre dall’Iss su 259 residenti in due comuni della zona rossa vicentina e su 122 agricoltori e allevatori attivi nella stessa area, evidenzia che le concentrazioni di contaminanti nel sangue degli agricoltori erano molto più alte rispetto a quelle dei residenti. Mentre gli abitanti della zona non impegnati in attività agricole presentavano infatti una mediana di 13,8 nanogrammi di Pfoa (la molecola presente in dosi maggiori) per litro di sangue, nei secondi questa saliva a 40 nanogrammi, con picchi di 159, a fronte di un limite massimo fissato a otto nanogrammi.

Pfas, contadino al lavoro
Gli agricoltori sono tra i più coinvolti dalla crisi Pfas, le analisi fatte sulla popolazione mostrano alti livelli di contaminazione nel loro sangue

Un ulteriore tema di riflessione riguarda le sostanze analizzate e prese in considerazione per i diversi studi. Le molecole appartenenti alla famiglia dei Pfas (perfluoroalchiliche) sono ormai oltre 4.700, altamente persistenti e utilizzate in numerose attività industriali, queste catene di carbonio legate ad atomi di fluoro non esistono in natura e non si conoscono ancora in maniera completa i danni che possono causare all’organismo. Nei dati appena pubblicati, le molecole ricercate sono solamente 12, e già si tratta di una quantità superiore rispetto alle quattro (Pfos, Pfoa, Pfna e Pfhxs) considerate dall’autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). Vale la pena di ricordare che la stessa Autorità a febbraio aveva ridotto di quattro volte la soglia di assunzione settimanale tollerabile per questi composti chimici, arrivando a 4,4 nanogrammi per chilo corporeo.

La questione è decisamente complessa e tuttora in fase di studio. Quel che è certo è che, finora, i provvedimenti presi sono molto pochi. Gli interventi riguardano esclusivamente l’acqua potabile in zona rossa, per la quale sono stati messi dei sistemi di filtrazione, e il divieto, sempre in zona rossa, di consumare il pescato. Non risultano essere state date indicazioni di alcun genere agli agricoltori dell’area e neppure sono state fatte valutazioni sulla diffusione dei prodotti potenzialmente inquinati. Nel frattempo, avanza il maxi-processo che vede imputati 15 manager dell’azienda chimica Miteni e delle controllanti Mitsubishi e Icig, per la procura responsabili di avvelenamento delle acque potabili e disastro ambientale. Nell’udienza dello scorso 16 settembre i legali della difesa hanno sollevato diverse eccezioni di forma, rispetto alle quali si attende una risposta in occasione dell’udienza del 30 settembre. Poi il processo entrerà nel vivo. Ma chissà quanto occorrerà attendere per una bonifica del terreno sottostante la Miteni, che anche a macchinari spenti continua a rilasciare nella falda le sue sostanze tossiche.

©Riproduzione riservata; Foto: AdobeStock

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gianni
gianni
26 Settembre 2021 14:33

Grazie per aver riacceso la luce su questo fattaccio in cui, se il processo avrà un andamento lineare, saranno in molti a perdere la faccia visto che le risultanze del progetto Giada avrebbero dovuto far scattare l’allarme già nel 2006, avrebbe dovuto avviare indagini veloci e altrettanto veloci azioni contenitive.
Invece si fecero spallucce e solo dal 2013 si è mosso qualcosa, la politica e le ULSS di riferimento hanno avviato azioni pur con contraddizioni e ritardi penosi.
Tutto questo è comunque pervaso da un superiore piano di disinformazione e malfunzionamento…..è da più di ventanni che gli scienziati sanno che queste molecole, pur utili per lo scopo richiesto, sono persistenti nell’ambiente e potenzialmente dannose per la salute…..seguono poi le solite lentezze, titubanze, timidezze verso interessi consolidati…..poi la sostituzione con altre molecole simili a catena più corta ma ugualmente nefaste che richiedono altri anni per la certificazione dei danni…..la ricerca di qualcun altro da incolpare, ecc.ecc……. tutta la noiosa trafila già vista altrove in attesa della prescrizione.
Tutto noioso, ripetitivo e purtroppo inutile a ricavare regole umane stabili per prevenire i guai.

Giova
Giova
Reply to  gianni
9 Ottobre 2021 21:46

concordo, è molto, ma molto più, di un fattaccio

Lucia Ballarin
Lucia Ballarin
3 Ottobre 2021 12:34

Gentile sig. La Pira,
grazie di richiamare all’attenzione dei lettori un disastro ambientale di simili proporzioni, per il quale le autorità si sono mosse tardi e di malavoglia. Nel 2016, anch’io ho cercato nel mio piccolo di sollecitare l’attenzione dei politici della Regione Veneto e del Parlamento, inoltrando loro la raccolta di firme da me promossa su Change. Org., ma solo un consigliere Veneto mi ha risposto, confermando che ne era già a conoscenza. Dagli altri, il silenzio più totale. Mi preoccupa, inoltre, che non si possa sapere nulla relativamente alle zone verdi, ancora “sotto indagine”. A me viene da pensare che i dati ci siano, ma che non vogliano farli conoscere.
Non solo beviamo i pfas, ma ahimè, ce li troviamo anche sul piatto.
Cordiali saluti,
Lucia

Giova
Giova
Reply to  Lucia Ballarin
9 Ottobre 2021 21:49

se i dati ci sono, un giornalista o un cittadino dispongono di strumenti legislativi per richiederli, basta attivarsi. Non nego le difficoltà, comunque …

Chiara Lazzeri
Chiara Lazzeri
3 Ottobre 2021 17:07

Grazie per il contributo su un tema che ho approfondito recentemente con la video-inchiesta “PFAS quando le mamme si incazzano”, realizzata dal giornalista Andrea Tomasi grazie all’attività e alle testimonianze del comitato “Mamme NOPFAS”.