Carne coltivata e alternative vegetali nel mirino dei grandi investitori, che chiedono ai fast food impegni contro il cambiamento climatico
Carne coltivata e alternative vegetali nel mirino dei grandi investitori, che chiedono ai fast food impegni contro il cambiamento climatico
Agnese Codignola 20 Febbraio 2019Dopo la mobilitazione del mondo scientifico, diventata evidente in seguito alle recenti iniziative di The Lancet, anche i grandi investitori statunitensi scendono in campo per un cambiamento radicale dell’alimentazione americana e, per estensione, di quella dei Paesi più ricchi. Con un’azione senza precedenti patrocinata dalle fondazioni per la sostenibilità Ceres e FAIRR Initiative, 80 tra i principali investitori del mondo, che nell’insieme gestiscono un patrimonio pari all’inimmaginabile cifra di 6,5 trilioni di dollari, hanno scritto alle sei principali catene di fast food, che distribuiscono pasti in oltre 120 mila ristoranti, chiedendo un impegno per mettere in campo azioni concrete, entro pochissimo tempo.
Quattro i punti sottolineati nel documento:
- pretendere che chi fornisce carne, latte e derivati sia attivamente impegnato nella riduzione delle emissioni di gas serra e nel consumo di acqua associata agli allevamenti;
- rendere pubblici gli obiettivi – inerenti la riduzione di emissioni e consumo di acqua – con definizioni numeriche e temporali molto chiare (escludendo impegni generici);
- impegnarsi a rendere conto ogni anno dei progressi;
- compiere analisi di scenario in linea con le raccomandazioni della Task Force on Climate-related Financial Disclosure (Tcfd), volte a evitare il più possibile i conflitti di interesse e a rendere trasparenti le iniziative prese per combattere il riscaldamento globale.
Ai destinatari dell’appello – Domino’s Pizza, McDonald’s, Restaurant Brands International (che gestisce Burger King), Chipotle Mexican Grill, Wendy’s Co e Yum! Brands (che possiede Pizza Hut e KFC) – è stato segnalato anche l’ultimo rapporto di FAIRR, secondo il quale, se non ci saranno mutamenti molto significativi nella dieta globale, entro il 2050 il 70% delle emissioni di gas serra sarà riconducibile agli allevamenti e alle monocolture necessarie per ottenere abbastanza mangimi. Tradotto in CO2, ciò significa che ci saranno 11 giga tonnellate di differenza tra la realtà e gli obiettivi individuati per contenere il riscaldamento globale entro i due gradi. Analogamente, se si continuerà così, un decimo dell’acqua della Terra sarà usata per produrre carne e latte.
“Ciò che stupisce – e non è più accettabile –” ha commentato Brooke Barton, direttrice di Ceres “è che uno dei principali settori industriali a livello globale e tra i primissimi responsabili del riscaldamento terrestre non abbia finora assunto alcun impegno consistente per modificare la situazione come invece stanno facendo, per esempio, le aziende che producono energia elettrica. Tutto questo deve cambiare subito”.
Del resto, che gli investitori pensino a un processo inevitabile e stiano spingendo in questa direzione, si vede dai settori che stanno finanziando: la carne coltivata o i suoi sostituti vegetali. Nature, in merito a questo, ha appena pubblicato un articolo in cui fa il punto proprio sul denaro investito e soprattutto su ciò che resta da capire e risolvere prima di arrivare alla carne coltivata al supermercato.
Negli ultimi due anni, scrive scrive Elie Dolgin, editor della rivista, decine di milioni di dollari sono arrivati da investitori come Bill Gates, ma i destinatari sono stati per lo più start up o aziende; per questo la ricerca pubblica, incaricata di rispondere a questioni molto importanti, fatica a tenere il passo. E tuttavia parecchio resta da fare, per esempio sulle cellule da cui partire per far crescere la carne, sui mezzi di coltura e sui biomateriali (bioscaffold) da usare come supporto per avere tessuti veri e propri e non solo strati di cellule.
Un passo in avanti è stato fatto da uno dei principali istituti no profit che si sta occupando di sostenere le alternative alla carne classica, il Good Food Institute (o GFI) di Washington, che ha appena annunciato come dividerà i 3 milioni di dollari messi in palio per il suo primo programma di ricerca (il più generoso mai lanciato): saranno finanziati 14 progetti, sei di gruppi che lavorano sulla carne coltivata e otto di altri che si concentrano sui sostituti vegetali.
Tra i progetti più interessanti ve ne sono alcuni relativi appunto ai bioscaffold, e altri come quello del Norwegian Center for Stem Cell Research di Oslo, che sta cercando di costruire una Frozen Farmyard in cui studiare e archiviare il maggior numero possibile di cellule staminali di maiali, vacche, polli, pesci e così via, al fine di identificare le linee migliori e ampliare le possibilità di scelta.
L’iniziativa del GFI, tuttavia, per il momento è piuttosto isolata. Negli anni Novanta, ci furono alcuni progetti, finanziati per esempio dalla NASA, per ottenere carne di pesce per gli astronauti. Ma oggi, perfino in Olanda, dove lavora Mark Post, l’ingegnere tissutale dell’Università di Maastricht che per primo ha realizzato un hamburger in vitro, visti i costi (250 mila dollari l’uno) l’attenzione si è spostata sui derivati vegetali che, opportunamente aromatizzati, possano sembrare carne. Negli Stati Uniti i bandi dei National Institutes of Health sulla carne coltivata in laboratorio sono focalizzati sugli aspetti medici (per esempio i trapianti), mentre qualche segnale si intravede in Israele, paese che si è subito schierato per la carne in vitro.
La Israel Innovation Authority, che finanzia e coordina le start up, ha infatti appena finanziato la Aleph Farms, lanciata da Shulamit Levenberg, bioingegnere del Technion-Israel Institute of Technology di Haifa, e ha deciso di investire quasi 30 milioni di dollari per dare vita nei prossimi otto anni a un incubatore dedicato, simile a uno esistente in California (IndieBio), da dove sono arrivate quasi tutte le aziende più vivaci del settore per quanto riguarda gli Stati Uniti.
Tutto questo, per quanto insufficiente, ha già avuto effetti significativi sui costi: secondo Post il suo hamburger ora costa 500 dollari, mentre secondo Levenberg la sua fettina ne costa appena 50. La strada è ancora lunga, ma rispetto al 2013, anno in cui Post presentò al mondo il suo hamburger, lo sviluppo di tutto il settore è stato ed è straordinario, ed è probabile che nei prossimi anni, anche grazie a nuovi investimenti milionari, la carne coltivata diventi un’opzione reale.
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Giornalista scientifica
Finalmente un articolo che fa in parte chiarezza su certe mie affermazioni che qualcuno, in un precedente post, ebbe a definire “fantastico ottimismo”.
Lo stato dell’arte fa prevedere che per le prossime esplorazioni umane su Marte e la Luna, gli astronauti avranno un hamburger e una bistecca coltivati in vitro durante il viaggio e la permanenza sul pianeta rosso ed i cantieri lunari.
Per l’offerta al dettaglio terrestre, penso ci vorranno tempi ed industrializzazioni ancora piuttosto lontane, ma la strada sembra tracciata e concreta.
Mentre le alternative attuali alle carni allevate sono già ampiamente disponibili, ecologiche e sostenibili come le proteine vegetali coltivate a rotazione vantaggiosa con i cereali ed anche quelle degli insetti allevati.
Tutta la letteratura scientifica dice che le diete sane e preventive sulle principali patologie croniche son a base vegetale in quanto sono gli alimenti vegetali a contenere nutrienti e altre sostanze che agiscono come antagonisti dello stato di infiammazione cronica, determinata dagli alimenti di origine animale e che è la situazione di partenza delle patologie quali tumori, diabete, pat. cardiovascolari, demenze, sindrome metabolica, etc.
La letteratura scientifica dice anche che le proprietà benefiche si trovano nei vegetali meno lavorati possibile, e più sono alimenti trasformati meno possiedono tali proprietà.
Orbene: quali sono i motivi per sostituire la carne animale con carne di laboratorio anzichè con legumi, frutta secca, semi oleaginosi, frutta e verdura?
Tento di rispondere al suo quesito con lo stesso principio che lei ha affermato appena sopra e cioè per le proprietà benefiche dei vegetali minimamente lavorati e che sono attribuibili all’energia della pianta ancora intatta.
Per lo stesso principio, molti consumatori scelgono alimenti di origine animale per il gusto organolettico dell’alimento, ma anche e soprattutto per la convinzione di prendere e caricarsi dell’energia attiva dell’animale ed il valore nutrizionale della quota proteica.
Nella scelta non entrano convinzioni etiche ma solamente istintive e nutrizionali, per le indicazioni dietetiche ampiamente diffuse.
Personalmente ho le mie convinzioni e stile alimentare e questo è solo un parere statistico al suo quesito.
Quindi, gent.mo Ezio, se ho ben capito , molti consumatori sono guidati solo dal soddisfacimento del proprio piacere o dalle proprie convinzioni, indipendentemente se queste scelte posso causare sofferenza e morte ad altri esseri viventi, danni a stessi, danni all’ambiente . E le” convinzioni istintive” sono in antitesi con la responsabilità e la consapevolezza delle conseguenze delle scelte.
Qualora invece fossero ” convinzioni istintive” fatte con responsabilità e consapevolezza delle conseguenze, l’unica parola che mi viene in mente è menefreghismo!