Carne bovina: contribuisce al problema della siccità? La questione è dibattuta da anni, e ancora non c’è accordo tra i sostenitori di un “vegetarianesimo ecologico” e chi invece difende gli allevamenti bovini minimizzandone il consumo idrico rispetto ad altre forme di spreco. Un nuovo documento pubblicato dal Crea prova a fare chiarezza.
L’impatto dell’uomo sull’ambiente è il risultato dell’insieme delle sue scelte quotidiane di vita e di consumo, tra cui, in particolare, quelle compiute a tavola. Per questo negli ultimi anni, molti studi hanno messo a confronto i diversi stili alimentari, per indagarne l’impatto ambientale in termini di inquinamento, spreco di risorse e contributo al cambiamento climatico. L’opinione pubblica e la comunità scientifica hanno assunto posizioni contrastanti a riguardo, dividendosi tra chi ritiene che le diete a base di cibi di origine animale (carne, salumi, pesce, ma anche uova, latte, formaggi, miele) risultino meno “ecologiche” e “sostenibili” rispetto a quelle prevalentemente vegetariane o vegane e chi invece smentisce questa tesi.
Ad essere messo sotto accusa da molti è il consumo di carne bovina, perché l’allevamento degli animali (in tutte le fasi che vanno dalla produzione e dal trasporto di foraggio e mangimi, alla lavorazione delle carni e degli altri prodotti derivati) è considerato tra le attività umane che, sia direttamente sia indirettamente, hanno il più elevato impatto ambientale in termini di alterazione del paesaggio, di carbon footprint e water footprint.
Secondo il rapporto dell’organizzazione non governativa Amazon Conservation, pubblicato nel 2022 sulla piattaforma Global Forest Watch del World Resources Institute, il 60% delle foreste pluviali viene abbattuto proprio per ottenere pascoli e per coltivare grandi quantità di vegetali (soprattutto soia e cereali) destinati all’alimentazione animale. Questo fenomeno di deforestazione contribuisce non solo alla perdita di biodiversità, ma anche all’intensificarsi dell’effetto serra responsabile del riscaldamento globale, all’aumento del dissesto idrogeologico e all’aggravamento della siccità.
Per quanto riguarda l’impronta di carbonio, sono molti gli studi che considerano il settore zootecnico come tra i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra (GHG, ovvero Greenhouse Gases). Nel 2019 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, aveva stimato che il sistema alimentare globale fosse responsabile del 21-37% delle emissioni di gas serra. Nel 2021 lo studio di un gruppo internazionale di esperti guidato dall’Università dell’Illinois (a cui ha partecipato anche la divisione Statistica della FAO di Roma), condotto sui dati raccolti nel 2010 in più di 200 Paesi del mondo e pubblicato su Nature Food, ha messo a confronto le emissioni dei tre principali gas serra (anidride carbonica, metano e protossido di azoto) derivanti da tutti i settori delle filiere alimentari, dimostrando come dei più di 17 miliardi di tonnellate di gas serra prodotti ogni anno dalle filiere alimentari a livello globale, il 29% deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale mentre quasi il doppio, il 57%, è dovuto ai cibi di origine animale. In particolare gli allevamenti di bovini sono tra i più impattanti perché questi capi di bestiame, oltre ad avere bisogno di ampi pascoli, spesso creati dalla deforestazione e ad emettere metano durante la digestione, sono al centro di una filiera che implica una serie di attività inquinanti di trasporto e lavorazione tanto dei mangimi quanto di latte e carni.
Un altro aspetto che oggi pone l’attività zootecnica sempre più sotto i riflettori quando si parla di sostenibilità, è l’impronta idrica degli allevamenti, cioè il consumo di acqua richiesto dalle diverse tappe della filiera. Anche in questo caso la produzione di carne bovina è considerata la più impattante. Infatti, secondo l’organizzazione internazionale Water Footprint Network, per ottenere un solo chilogrammo di manzo (ovvero per coltivare il mangime necessario per nutrire il bestiame, abbeverare gli animali, pulire le stalle, effettuare le operazioni di mungitura e macellazione, ecc) servono più di 15.400 litri d’acqua. Una quantità molto maggiore rispetto a quella richiesta per produrre la stessa quantità di carne di pecora (10.400 litri), di maiale (6.000 litri), di capra (5.500 litri), di pollo (4.500 litri) e incredibilmente superiore a quella necessaria per produrre i cibi vegetali destinati direttamente all’alimentazione umana: per ottenere 1 kg di pasta secca servono 1.849 litri d’acqua, per il pane 1.608 litri, per il mais 1.222 litri, per le pesche 910 litri, per le mele 822 litri, per le banane 790 litri, per le arance 560 litri, per cetrioli o zucchine 353 litri, per cavoli e lattuga 237 litri, per i pomodori 214 litri e così via.
Sulla base di queste considerazioni, molti studi e pubblicazioni, riportati anche da canali autorevoli (come Pnas, Plos Climate e l’Economist) hanno ritenuto di poter individuare una possibile soluzione a tutela del pianeta nel passaggio da una dieta a prevalenza carnivora a una principalmente basata su prodotti di origine vegetale (o addirittura vegana), che entro il 2050 consentirebbe di ridurre le emissioni di gas serra legate alla produzione alimentare e di abbatterebbe l’impronta idrica del 35-55%.
A smentire questa tesi ci ha pensato una recente pubblicazione del CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), secondo la quale il consumo complessivo di acqua nella dieta non varia in modo sostanziale se si sostituisce la carne con verdura e frutta provenienti da colture irrigue. In più, a difesa della carne rossa, il documento in questione sostituisce il concetto di “impronta idrica” con quello di “stress idrico” e sottolinea come in realtà più del 90% dell’acqua necessaria a produrre carne è di tipo “verde”, cioè acqua piovana e solo il 4-7% è “acqua blu”, prelevata dalle falde acquifere o da bacini superficiali, mentre il 2% è “acqua grigia”, ovvero legata ai processi di depurazione. Pertanto considerando una buona efficienza del sistema irriguo in un allevamento estensivo, la quantità d’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne bovina è di 790 litri (e non di più di 15.000).
Pertanto non serve correggere la propria dieta in direzione veg per ridurre l’impatto ambientale dei sistemi di produzione alimentare globale. Infatti passando da una dieta onnivora a una vegana, il risparmio di acqua sarebbe solo del 14% circa. Piuttosto contano le scelte compiute in sede di pianificazione delle produzioni zootecniche e la promozione dello sviluppo tecnologico nel settore agrifood, per esempio con la riduzione delle emissioni di CO2 da parte delle aziende zootecniche, con la sostituzione della coltivazione del mais irriguo con sorgo e triticale e con utilizzo di mangimi innovativi, con l’applicazione della zootecnia di precisione e il miglioramento genetico dell’efficienza produttiva e riproduttiva degli animali.
Oltre a queste soluzioni, c’è anche chi sta puntando ancora più in alto per ridurre l’impatto della produzione alimentare sul cambiamento climatico, per esempio “coltivando” bistecche in laboratorio. È il caso di Mosa Meat, azienda olandese di tecnologia alimentare con sede a Maastricht, che ha annunciato il suo primo hamburger di manzo sintetico già nel 2013, ma anche di Aleph Farms, Future Meat, Impossible Foods, Eat Just, Beyond Meat, tutte aziende impegnate nella produzione di carne (bovina e non solo) ricavata da cellule modificate.
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Buongiorno, articolo molto interessante. Ho però una domanda circa l’uso dell’acqua verde: in caso di un periodo prolungato di siccità e mancanza di piogge, come viene sostituito l’importo idrico?
Non credo ci siano serbatoi di acqua piovana abbastanza capienti per rispondere alla domanda idrica di un allevamento bovino (specie se intensivo) per un esteso periodo di siccità, come quelli che sempre stiamo vivendo con frequenza crescente da un anno all’altro.
Mi viene da pensare che in tali casi si sostituisca la quantità di acqua verde con acqua blu, o non è così?
La ingrazio.
Gli allevamenti di ruminanti generalmente utilizzano nella razione prodotti ottenuti durante il periodo invernale successivamente affienati o insilati ed utilizzati durante l’intero anno (fieno di medica o di altre leguminose, fieno di graminacee o polifiti insilato di triticale o di sorgo ecc). La caratteristica dei ruminanti è appunto quella di usare la fibra (non digerita da noi) sotto forma di foraggio. Alimenti problematici che necessitano di irrigazione in quanto a raccolta tardo primaverili ed estiva sono per semplificare insilato di mais, erba fresca, granella di mais e soia , che in una zootecnia attenta possono essere sostituiti con granella di triticale, orzo, pisello proteico, favino ecc derivanti da colture invernali e primaverili che non necessitano di irrigazione. La programmazione attenta ci permette di valutare eventuali anni molto siccitosi e gestire la coltivazione dei foraggi. Qual ora non si tiene conto dei cambiamenti climatici l’allevatore si ritrova ad aver piantato mais, che non potrà irrigare o che comunque irrigherà con dispendio di acqua blu. La zootecnia come qualsiasi attività umana non può essere predatoria per l’ambiente e quindi deve sottostare ad una programmazione attenta.
Pubblicazione originale del CREA – Carne bovina: facciamo chiarezza su siccità e consumi di acqua
a cura di:
Sebastiana Failla – Ricercatore CREA-Zootecnia e Acquacoltura
Salvatore Claps – Direttore del CREA-Zootecnia e Acquacoltura
Con questa ricerca l’ente di sperimentazione e ricerca CREA si impegna attivamente nel dimostrare come solo la zootecnia di precisione sia la soluzione al disastro ambientale in atto.
Per “mitigare lo stress idrico dovuto agli allevamenti” si suggeriscono modificazioni genetiche ai foraggi e più selezione genetica nei bovini per spremere ancora quanto più possibile “EFFICIENZA produttiva e riproduttiva” della macchina animale, “in particolare con l’aumento della gemellarità e del numero di parti negli animali da latte grazie all’incrocio.”
Si evince dalla ricerca come l’impronta idrica degli allevamenti bovini sia ben poca cosa, la soluzione “non è legata al consumo di carne”, nessuno osa minimamente suggerire di “modificare le nostre scelte alimentari” dopotutto quando fa comodo vogliamo “evitare una eccessiva semplificazione di un sistema complesso.”
Va invece tenuto in considerazione “l’impatto idrico che possono avere gli integratori alimentari assunti in una dieta esclusivamente vegetale”.
La ricerca dunque si prefigge un solo, unico, ambizioso obiettivo, riuscire a convincere che:
“non sembra certo essere LA TRANSIZIONE PROTEICA, che propone soluzioni alternative alla nostra dieta, radicata in un contesto culturale, ad apportare, nel breve periodo, benefici al benessere dell’uomo, dell’animale e dell’ambiente.”
C’è ancora molto da sfruttare, spremere e depredare in termini di risorse animali e ambientali. La zootecnia ci sta serenamente accompagnando in quella direzione.
p.s. manca la dichiarazione di assenza di conflitto di interessi.
La sostituzione del parametro “impronta idrica ” di un alimento con lo “sforzo idrico “, cioè la fatica competitiva e costo di approvvigionamento dell’acqua che è indispensabile per ottenerlo non mi sembra corretta, una specie di fuorviante gioco di prestigio.
Sono due concetti diversi e non intercambiabili, certo se si avesse a disposizione abbondanza di acqua verde in maniera costante e prevedibile nel medio lungo periodo anche un cibo che per crescere ha enorme bisogno di acqua allora potrebbe essere sostenibile ma chi può negare oggi che l’acqua verde è una risorsa problematica, intermittente e tendenzialmente sempre più scarsa e inquinata?
Senza contare che c’è tutto un mondo naturale di biodiversità, i famosi rovi ed altro ancora, che pretendono di avere la loro parte ….a meno che non pensiamo di spazzare via tutto ciò che non è umano o confacente servilmente ai nostri fabbisogni.
Dunque cercando di interpretare lo studio Crea si vorrebbe affermare che finchè c’è acqua verde a sufficienza il prodotto qualsiasi è sostenibile.
Ma questi ricercatori sono al corrente che sempre più le nazioni anche molto civilizzate utilizzano sempre più non solo acque blu di falda superficiale, che sono in generale di diretta provenienza dalla verde, ma anche acqua fossile non sostituibile se non in tempi secolari spingendo i pozzi a profondità di km?.
Non dovrebbe nemmeno sfuggire che si sta utilizzando un pò dovunque l’acqua grigia, visti i progressi ( veri o presunti ) nella purificazione dei reflui.
Non vorrei rilanciare una discussione sulla memoria dell’acqua, si dice che è stregoneria inammissibile da pensare, ma alcune sostanze che entrano in contatto con il nostro liquido vitale sembra non se ne vadano più via nonostante gli attuali procedimenti d’avanguardia, per esempio:
https://www.sciencedaily.com/releases/2022/10/221026193536.htm
———PFAS (per-and polyfluoroalkyl substances) persist through wastewater treatment at levels that may impact the long-term feasibility of ‘beneficial reuse of treated wastewater,’ according to a new study.———–
Non nascondiamoci dietro le parole, l’acqua conserva traccia delle sostanze con cui entra in contatto e se sono veleni grazie all’accumulo nel tempo e alla pervasività per noi saranno guai.
Molto interessanti gli interventi di Claudio e Gianni , grazie !!! Spesso si tende a voler risolvere sistemi complessi con valutazioni banali che , facendo acqua da tutte le parti ( non so se verde , blu o grigia …) offrono il fianco debole a qualsiasi detrattore