allevamento di bufali d'acqua

Per la maggior parte di noi, “bufala” significa mozzarella. Ed è proprio per produrre questo formaggio che ci sono tanti allevamenti nel nostro paese. Trattandosi di aziende agricole finalizzate alla produzione di latte e quindi interessate solo a animali di genere femminile il problema è quello di gestire il surplus di animali maschi che nella maggior parte dei casi vengono soppressi. La questione che interessa anche gli allevamenti di galline ovaiole e altri animali è già stata segnalata più volte da Il Fatto Alimentare. Proprio in questi giorni la Federazione dei veterinari europei ha approvato un documento sui costi etici dell’abbattimento di animali non utilizzati come bufalotti o capretti, ma anche i pulcini delle galline ovaiole. “I veterinari – si legge nel documento – devono contribuire a evitare la produzione di animali in surplus o indesiderati” che per i produttori rappresentano un sottoprodotto indesiderato, di cui a volte si liberano senza andare troppo per il sottile. Della questione dei piccoli di bufalo soppressi alla nascita si era parlato qualche anno fa in seguito a un’indagine dell’associazione Four Paws International su oltre cinquanta allevamenti del casertano e del salernitano.

In questi anni si è fatto molto per cambiare le cose. “Comportamenti di questo tipo non sono tollerabili, e oggi abbiamo gli strumenti per contrastarli”, spiega uno dei massimi esperti del settore, Domenico Vecchio dell’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno. A partire dalla Banca dati nazionale dell’Anagrafe zootecnica (BDN), informatizzata in modo da permettere ispezioni in tempo reale, e alla quale i bufali – così come i bovini – sono registrati con una matricola che permette di tracciare i vitelli dalla nascita. Un’iniziativa cui si aggiunge www.tracciabilitabufala.it, il portale creato nel 2014 proprio per garantire la tracciabilità della filiera del latte bufalino, censendo la produzione di ogni allevamento. Ovvio che esistano margini di illegalità – è proprio di questi giorni la notizia di un intervento dei Nas di Caserta su un allevamento risultato non in regola.

Bufali e bufale amano gli ambienti caldi, ma con abbondante acqua e ombra, per garantire una corretta termoregolazione

A tutela dei bufali ci sono anche altre iniziative, come il progetto “Ruminant Welfare” pensato per valutare il  benessere dei ruminanti, tra cui le bufale da latte allevate a stabulazione libera, guidato dal Centro di referenza nazionale per il benessere animale (CReNBA) dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e Emilia Romagna (IZSLER). Tra i parametri presi in considerazione per valutare il benessere c’è anche la mortalità dei bufalini maschi. “Un altro accorgimento che potrebbe contribuire alla riduzione del problema – spiega Vecchio – è la possibilità di utilizzare seme sessato nelle operazioni di inseminazione assistita”, garantendo così la nascita di animali del genere desiderato. Questa opportunità è menzionata anche nel documento dei veterinari europei. A riprova di un miglioramento della situazione ci sono i dati ISTAT che registrano un aumento delle macellazioni di bufali, passate dai 4.621 del 2006 ai 94.660 del 2016.

Si tratta di un cambiamento che va di pari passo con la crescita di interesse per questo animale, allevato nell’area mediterranea da millenni. A livello mondiale si è passati da 164 milioni di capi del 1994 ai 195 milioni del 2012, “con particolare riferimento ai paesi tropicali e sub tropicali, dove il bufalo è allevato per la produzione di latte, carne e in alcuni territori anche come lavoro”, nota Vecchio. In Italia la crescita è stata altrettanto interessante. I 12 mila capi del dopoguerra adesso sono 396.725 (al 31 dicembre), tre quarti dei quali sono allevati in Campania, mentre il resto nel Lazio, in Puglia e in Lombardia, segno di un interesse crescente in zone non tradizionali. “Spesso si pensa che il bufalo, essendo di origine tropicale, sia molto resistente al calore – osserva Vecchio – in realtà la bufala nel clima tropicale trova oltre al calore acqua e ombra, perché la cute ha scarse ghiandole sudoripare e un maggior numero di ghiandole sebacee rispetto alla bovina, e in condizioni di calore ha bisogno di un film liquido che permetta una corretta termoregolazione, come emerge dal nome inglese di water buffalo”.

Il latte delle bufale è usato principalmente per la produzione di mozzarella, ma crescono anche i formaggi stagionati

Un animale, sottolinea Vecchio, “interessante come modello zootecnico per le sue caratteristiche: la resilienza nei confronti dei cambiamenti ambientali e l’equilibrio tra aspetti produttivi e fisiologici”. Peculiarità che lo rendono molto diverso dalle vacche da latte. Le bufale vivono più a lungo, tanto che non è infrequente trovare negli allevamenti animali di dieci anni in piena efficienza, e producono quantità minori di latte, una media di 8,5 kg il giorno. E si tratta di un latte diverso dal latte vaccino: “ha molto più grasso e proteine, rispetto al latte bovino. – ricorda Vecchio – Da un punto di vista energetico 1 kg di latte bufalino vale circa 1,7 kg di latte bovino.” La produzione è quasi interamente utilizzata per il formaggio fresco. Il prodotto più famoso è la Mozzarella di bufala campana Dop, è al quarto posto come valore tra le DOP nazionali, con quasi 350 milioni di euro per oltre 41 milioni di kg di prodotto nel 2015 (fonte: www.mozzarelladop.it). Al formaggio Dop si affiancano le mozzarelle di bufala e anche  formaggi stagionati o semistagionati prodotte in altre aree collocate  fuori dalla zona di elezione che registrano una forte crescita.

Fonte: Istituto Nazionale di ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione

Per quanto riguarda il consumo della carne di bufalo, rappresentato da giovani e giovani adulti maschi, si tratta di un settore che fatica a espandersi. Sul territorio sono presenti 2212 allevamenti bufalini di cui il 77% è registrato come produzione latte, il 9% è misto (latte e carne) e solo il 14% è focalizzato solo sulla carne. Eppure la materia prima è interessante dal punto di vista nutrizionale. La carne, infatti, contiene meno grassi, colesterolo e calorie rispetto al bovino: “I valori di colesterolo sono addirittura inferiori alla carne di struzzo”, ricorda Vecchio. Il problema è soprattutto culturale: in passato la carne di animali giovani e di buona qualità veniva venduta come carne bovina, mentre quella commercializzata – correttamente – come carne di bufala, proveniva da animali a fine carriera, allevati in aree paludose o con diete non bilanciate, ed era di qualità scadente che disincentivava i consumatori.

Altre difficoltà sono rappresentate dallo scarso numero di capi disponibili sul territorio nazionale che rendono difficile fornire alle catene di supermercati un rifornimento costante. La carne delle bufale da latte a fine carriera, comunque, difficilmente si troverà nei banchi frigo di un supermercato, ma è probabile che, come per quella delle vacche anziane, sia destinate all’industria trasformatrice. Insomma, la carne di bufalo è un prodotto da sostenere e incentivare, per fermare la strage dei bufalotti indesiderati, che ancora oggi, purtroppo, sono quasi sempre destinati alla soppressione appena nati. Qualcosa però sta cambiando: “Servirebbe un corretto processo di formazione e di informazione del produttore e del consumatore per valorizzare le realtà virtuose”.

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