Benessere animale, i consumatori non sono ancora disposti a pagare il giusto prezzo per un cibo etico. È Barilla l’azienda italiana più impegnata
Benessere animale, i consumatori non sono ancora disposti a pagare il giusto prezzo per un cibo etico. È Barilla l’azienda italiana più impegnata
Giulia Crepaldi 8 Marzo 2019Cresce l’interesse dell’industria alimentare e della ristorazione nei confronti del benessere animale, ma la realizzazione di miglioramenti è ostacolata dai consumatori poco disposti a spendere di più per cibi prodotti in maniera etica. Questo è il succo del rapporto del Business Benchmark on Farm Animal Welfare (BBFAW) relativo al 2018, che ha condotto un’indagine sugli impegni e le misure presi da 150 aziende – tra supermercati, produttori e catene di ristorazione – di tutto il mondo, Italia compresa, per migliorare le condizioni degli animali negli allevamenti.
Le aziende non sono state giudicate solo per le azioni messe in campo (o annunciate) per migliorare le condizioni di allevamento, ma anche sulla base dell’impegno dell’amministrazione verso il benessere animale. Il rapporto dà una grande importanza alla comunicazione dei risultati, anche parziali, delle azioni intraprese attraverso rapporti e documenti periodici che testimoniano l’avanzamento delle migliorie. In base alle risposte ricevute, il Benchmark ha diviso i partecipanti in sei fasce, da quella delle aziende leader nel benessere animale (fascia 1) a quella delle compagnie che non hanno un impegno in tal senso (fascia 6).
Più di tre quarti delle aziende incluse nel report (115 su 150) hanno annunciato qualche di impegno per eliminare l’allevamento in gabbia dalla propria catena di approvvigionamento, ma solo cinque lo hanno fatto in maniera universale. La maggior parte invece limita i propri impegni per il miglioramento delle condizioni degli animali solo ad alcuni dei Paesi in cui cono presenti, tipicamente quelli in cui la sensibilità verso il benessere animale è più alta (come Europa e Nord America), e/o solo ad alcune specie animali, quasi sempre le galline ovaiole, e dimenticandone altre, per esempio le vacche da latte e i maiali.
Delle 150 aziende esaminate, solo cinque rientrano nella prima fascia, più precisamente la Coop Svizzera insieme alle britanniche Cranswick, Marks and Spencer, Noble Foods e Waitrose. L’industria alimentare del Regno Unito emerge dal rapporto come leader mondiale nel benessere animale. Altre 12 aziende – tra cui Danone, Unilever e Tesco – sono collocate nella seconda fascia, quella dedicata alle compagnie che considerano il benessere animale parte integrante delle politiche aziendali.
Per trovare la prima italiana in classifica bisogna scendere alla fascia 3, dove sono posizionate le aziende che hanno intrapreso iniziative concrete per migliorare il benessere animale, ma che hanno ancora del lavoro da fare per portarle a compimento. Stiamo parlando di Barilla, che condivide la posizione con altre 33 imprese e multinazionali, come Kraft Heinz, Nestlè e McDonald’s (quest’ultima declassata rispetto al rapporto precedente). Tra i vari impegni di Barilla, il rapporto ricorda un progetto, portato avanti insieme a Ciwf Italia, per eliminare entro il 2019 il taglio della coda dei maiali da tutti gli allevamenti da cui si rifornisce.
In questo gruppo, si trova anche Lidl, una delle 19 imprese che migliora il proprio posizionamento rispetto al precedente rapporto. La catena di hard discount accresce il suo impegno verso gli animali nei diversi Paesi in cui è presente: per esempio nei Paesi Bassi ha contribuito allo sviluppo della uova Kipster, prodotte in maniera sostenibile e con alti standard di benessere, mentre in Germania ha introdotto un sistema di etichettatura trasparente sul tipo di allevamento per i prodotti a base di carne (vedi schema sotto).
La maggior parte delle aziende italiane incluse nell’indagine, invece, rientra nel gruppo di quelle che stanno facendo progressi (fascia 4): Camst, Coop, Ferrero, Cremonini (proprietario di marchi come Montana e Manzotin e delle catene Chef Express e Roadhouse, e il Gruppo Veronesi (unica impresa italiana in miglioramento), di cui fanno parte Aia e Negroni. Nella stessa fascia si trovano catene di supermercati come Carrefour, il colosso svedese Ikea e la multinazionale Mondelez.
Il Benchmark sottolinea come quasi metà delle aziende esaminate (70) siano ancora nelle ultime due fasce, (compagnie che hanno preso limitati provvedimenti per il benessere animale, o non ne hanno presi affatto). In questi gruppi troviamo giganti come Mars, Amazon (proprietaria della catena naturale e bio Whole Foods), Starbucks, Lactalis e catene della grande distribuzione come Auchan.
Nella fascia più bassa trovano anche Conad e Autogrill, le ultime due aziende italiane incluse nel report. Bisogna specificare, però, che il rapporto quasi certamente non tiene conto dei recenti impegni presi dalle due catene italiane. È di novembre, infatti, la decisione di Conad di non vendere più uova da galline allevate in gabbia di qualsiasi marchio entro il 1° luglio 2019, mentre Autogrill ha annunciato all’inizio di gennaio di volerle eliminare dalla catena di approvvigionamento entro il 2025. Per questo probabilmente nel prossimo rapporto avranno una posizione migliore, anche se la strada da fare per tutto il mondo delle imprese è ancora lunga.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
Tra l’indignarsi per le condizioni degli animali ed il pagare un po’ di più per tutelare gli animali, ce ne passa.
Eppure possiamo mangiare meno (carne), consumando solo quella più etica. Io soldi che avanzano non ne ho, ma abbiamo deciso di comprare solo carne bio e/o di allevamenti attenti al benessere animale. Non è sempre facile, ma se mai si comincia
interessante, quindi ti va bene spendere il doppio per la carne bio ma non hai alcuna attenzione per i campi profughi sulle isole greche. Per dirne una. L’ipocrisia e l’ignoranza sono i nostri problemi, non che un pulcino viva i suoi ultimi 15 giorni con 20cm quadrati a disposizione in più.
non interessa il benessere degli esseri umani, non vedo perchè dovrebbe interessare quello di chi nasce e cresce per essere ucciso.
Per fortuna una cosa non esclude l’altra, anzi, chi si dimostra interessato verso l’una tendenzialmente è interessato anche verso l’altra, dato che l’empatia è una caratteristica dell’essere.
@Andrea
Notazione non tecnica, ma di pura logica informale.
Dall’intervento di Paoblog non traspare assolutamente alcun disinteresse per i campi profughi nelle isole greche (nè altrove collocati, nè, tanto per dire, del femminicidio, dello schiavismo o di altri comportamenti abietti e generalmente ritenuti ripugnanti): l’intervento si limita a riferire la propria scelta di consumare carne da allevamenti attenti al benessere animale, in perfetta consecuzione – lui – con l’articolo cui si riferisce.
Nel contestargli un solo da Lei presunto disinteresse per il benessere di esseri umani, Lei se la canta e se la suona.
Partendo dalla premessa espressa nel post di Paoblog, Lei si dà a un’inferenza deduttiva che sta facendo rigirare nella tomba Aristotele.
Ah, scusi, si tratta di un tizio che nelle isole greche visse anch’egli qualche tempo fa, lo trova su Google.
Concordo !!!
Perché non c’è Esselunga nel rapporto?
Sarebbe interessante una analisi fatta in Italia sui consumatori italiani e sui negozi italiani.
Io credo che se la gente fosse piu’ e meglio informata, accetterebbe di pagare di piu’ per il benessere animale e quindi per avere cibo migliore.