Il tema degli antibiotici negli allevamenti, trattato in questo articolo pubblicato su Il Fatto Alimentare, ha sollevato numerosi commenti. Riportiamo la lettera di Lara Sanfrancesco, direttrice di Unaitalia, l’unione nazionale filiere alimentari carni e uova, in risposta al precedente intervento di Annamaria Pisapia, direttrice di CIWF Italia Onlus, l’associazione per il benessere degli animali da allevamento.
Nella sua lettera la direttrice di CIWF Italia tocca diverse tematiche su cui sono doverose alcune precisazioni. L’antibiotico resistenza (AMR), è un fenomeno globale, divenuto un vero e proprio allarme negli ultimi anni, al punto che numerose autorità sanitarie internazionali, a partire dall’OMS, stanno mettendo in atto campagne massicce di sensibilizzazione ad un corretto uso dell’antibiotico. Il dato richiamato nella lettera del direttore di CIWF relativo a “5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni nosocomiali” si riferisce ad infezioni contratte negli ospedali, nosocomiali per l’appunto, causate da batteri divenuti resistenti ai comuni farmaci e che sono il più preoccupante effetto del massiccio impiego di antibiotici in medicina umana.
Un uso eccessivo, non corretto e non sempre necessario sin dall’età pediatrica di antibiotici sta acuendo sempre di più il fenomeno, aggravato dal fatto che da anni l’industria farmaceutica non immette sul mercato nuove molecole. Questa precisazione è doverosa affinché non passi il messaggio che la causa dell’AMR sia da ricercarsi negli allevamenti intensivi, eliminati i quali, avremmo risolto il problema. Purtroppo non è così. In zootecnia si fa ricorso all’uso del farmaco per gestire le patologie che affliggono gli animali che, come avviene per gli uomini, si ammalano e vanno curati. Come evidenziato nell’articolo di Fabio Todaro sul Il Fatto Alimentare, esistono norme molto severe e controlli accurati sull’uso dei farmaci in avicoltura che garantiscono la totale sicurezza del consumatore. Il settore avicolo sta già facendo la propria parte per contribuire alla lotta al fenomeno dell’antibiotico resistenza , mettendo in campo tutte le sue migliori risorse per dare risposte concrete ed efficaci.
La ricerca e la selezione delle razze, così come avviene da secoli in agricoltura, hanno portato a migliorare le performance del pollo che oggi cresce non in modo abnorme ma in maniera conforme al proprio patrimonio genetico. La ricerca ha come obiettivo quello di selezionare le razze più forti, che convertano in maniera ottimale l’alimento e che si ammalino meno. È intuitivo che non avrebbe senso allevare polli che facilmente si ammalino, perché ciò si tradurrebbe in una inefficienza produttiva: le conoscenze veterinarie hanno dimostrato come animali allevati in condizioni ottimali di benessere garantiscano rese migliori e costi più contenuti. Questi principi sono oramai stati assimilati dalle filiere che ne fanno il proprio fondamento.
Il settore avicolo italiano è caratterizzato da una totale autosufficienza produttiva e da un modello di filiera integrata unico al mondo ed investe ogni anno il 7% del proprio fatturato in ricerca ed innovazione, a fronte di una media, già di per sé alta, del 2,5% dell’intero settore agroalimentare. L’allevamento intensivo non è una minaccia, se fatto bene. Per questo crediamo che il modello europeo che è quello con le normative più rigorose ed evolute in termini di sicurezza alimentare e benessere animale dovrebbe essere difeso ed esportato anche fuori dai nostri confini. Va senza dubbio dato atto che siamo giunti a questo livello di eccellenza anche grazie al ruolo di stimolo e sensibilizzazione verso i temi del benessere animale di organizzazioni come CIWF. Il percorso è in continua evoluzione e probabilmente tra vent’anni altri grandi passi avanti saranno stati fatti.
La richiesta di carni avicole nel mondo è in continua crescita, in particolare nei Paesi in via di sviluppo e nelle fasce di popolazione più deboli, che aumentando progressivamente la propria capacità di spesa, vogliono avere maggiore accesso a proteine nobili, ad alto valore biologico. Questa domanda potrà essere soddisfatta solo con produzioni su larga scala e ad elevato contenuto tecnologico che siano al contempo sane, sicure e sostenibili. La grande sfida cui tutti saremo chiamati è quella di rendere ancora più efficiente il modello produttivo, trovando il giusto equilibrio tra la domanda crescente di proteine animali, standard sempre più elevati di sicurezza alimentare, l’imprescindibile e doverosa attenzione al benessere animale e, non ultima, la sostenibilità economica delle produzioni. L’Europa, Italia in testa, ha i costi di produzione più alti al mondo, generati anche dal rispetto di regole e standard produttivi molto più severi dei nostri competitors mondiali. In uno scenario globale, con la concorrenza fortissima di players forti come USA e Brasile, dovremmo difendere modelli produttivi autosufficienti e virtuosi come quello italiano anziché auspicarne il declino. A meno che non si preferisca divenire importatori netti anche di carni bianche, una delle poche produzioni totalmente made in italy che ci rimangono.
Lara Sanfrancesco (direttrice Unaitalia)
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[sostieni]
Mi sembra che gli argomenti siano stati affrontati con equilibrio e competenza. a partire dall’articolo apparso su Il fatto alimentare a firma di Todari. La precisazione da parte di CIWF mi è sembrata un po’ datata, tesa a negare piuttosto che a costruire. Trovo invece sinceramente molto più adeguato e realistico l’atteggiamento di Unaitalia, che non difende a spada tratta un sistema, ma ne mette in evidenza le prerogative, riconoscendo l’importanza del benessere animale, gli sforzi fatti e il miglioramento a cui bisogna tendere, nel rispetto anche del nostro sistema produttivo.
Non mi piace la visione della zootecnia dell’animale come macchina che converte il cibo in carne
@Marco: sicuramente può non piacere, ma la zootecnia usa l’animale proprio per quello.
La risposta della Sanfrancesco assolve ovviamente la pratica della selezione, sostenendo che la si pratica da millenni. Ciò è vero, ma nei sistemi tradizionali d’allevamento (prima dei capannoni industriali dove ogni animale è una macchina biologica di conversione – vale per vacche da latte, per maiali, per polli…) le caratteristiche su cui operava la selezione non erano solo la velocita di crescita, l’indice di conversione dell’alimentazione, la quantità di latte/uova/porcellini per parto/ecc ma anche, tra le altre cose, la resistenza naturale alle patologie, sia quelle tipiche della specie che quelle derivanti dalla domesticazione che obbliga gli animali a standard vitali diversi da quelli “naturali” (i polli non farebbero mai gruppi di centinaia di individui, ad esempio).
La selezione non riesce ad operare solo sulle caratteristiche desiderate, lo prova l’aumento delle intolleranze per i grani moderni che possono invece diminuire passando a grani cosidetti “antichi”, un gene non lavora da solo in splendido isolamento, come vorrebbero i fautori degli OGM, e ottenere animali che crescono molto in fretta non significa che la crescita ponderale sia compensata da quella scheletrica, da quella del sistema immunitario, ad esempio…
é evidente che l’industria avicola deve difendersi, assolvendo i sistemi di allevamento. ma è anche evidente che se il consumatore dimostra di preferire carne economica la spinta è diminuire i tempi per la macellazione, ammassare quanti più animali possibile, standardizzare tutto. Anche la prevenzione con farmaci. Una gallina che si ammala nel pollaio vecchio stile si isola, la si individua bene. impossibile individuare patologie nel capannone fino a che in tanti non manifestano sintomi. Se il consumatore non è disposto a pagare un pollo quello che costa nel pollaio vecchio stile (intendo anche le moderne forme di allevamento che permettono numeri discreti) l’industria produrrà polli rapidi a crescere, medicalizzati, stressati…